Alex Zanardi, l’Ufo Robot che tutti noi vorremmo essere
Si salva, infila le protesi, ricomincia una seconda vita. Dopo aver corso indiavolato dai go-kart alla Formula 1, continua a darci dentro, stavolta pedalando come un forsennato con le mani. Con l’handbike si regala 4 ori olimpici e 12 mondiali, più un record mostruoso alla maratona di New York (un’ora, 13 minuti e 58 secondi). Una forza bruta. Anzi, una forza buona. Che scaturisce da dove? «Beh, ho pensato alla metà di me rimasta, non a quella che avevo perso». Gli eroi son tutti giovani e belli. Lui non è più giovane da un pezzo, ma è bellissimo, con due clamorosi occhi blu e un sorriso mite che nessuna delle molte folgori che l’hanno bersagliato è riuscita a incenerire, indurire, mutare in ghigno. Resisti anche questa volta, campione. L’hai già fatto quando un incidente stradale si è portato via Cristina, tua sorella in fiore, a quindici anni, e quando tuo padre Dino, idraulico, da cui hai ereditato le mani grandi e la passione per la meccanica e i motori, dopo averti seguito in ogni circuito della Terra, ti ha lasciato poco prima che tu vincessi i due titoli mondiali nella formula Cart (una volta si chiamava Indy). L’hai fatta, l’impresa di resistere, dopo il piovoso sabato tedesco del Lausitzring, per l’amore di un’anima inseparabile come Daniela e per poter riportare tuo figlio Niccolò, allora di tre anni, sulle spalle. Fallo ancora per noi, che a persone come te o come Bebe Vio dovremmo guardare appena ci lamentiamo con Dio per ogni niente.
Adesso che l’indomabile Zanardi dorme chissà quale sonno nella terapia intensiva del Santa Maria delle Scotte di Siena, devastato da un «fracasso facciale» che spaventa solo a immaginarlo, la speranza è che gli venga in soccorso l’aiuto di pensieri lontani. Fotogrammi del passato che hanno contribuito a farlo diventare quello che è, e che noi, ammirandone la caparbia ribellione alle malesorti, ameremmo essere. L’amico Paolo Barilla, per esempio, che gli è stato vicino nella seconda vita da atleta disabile, gli diceva che era una testa di kaizen, che sembra una presa in giro mascherata, ma è invece l’unione di due parole: «kai», cambiamento, e «zen» miglioramento. Guardare la parte rimasta e lavorare duro per cavarne il meglio, senza restare imprigionati nel fantasma di quel che si è perduto.
C’è un’infanzia dolce dietro al carattere d’acciaio di Sandrino, con una madre, Anna, sarta laboriosa, a cui lui dice di somigliare molto. Da piccolo, di notte, sentiva il ticchettio della sua macchina da cucire, camicie su misura, asole fatte a mano; se faticava a prendere sonno, la raggiungeva nella stanza con una coperta, lei gli cantava qualcosa sottovoce, e lui si addormentava rassicurato sul divano. E poi papà Dino, che gli regalò il primo go-kart, da cui tutta questa storia comincia. Una volta, prima di andare a scuola, Sandrino gli chiese: come faccio a far avverare i miei sogni? Lui gli rispose con una piccola perla di saggezza: «Ascoltando, innanzitutto. Se parli tu, non ascolti. E se non ascolti, non impari».
Tacendo, Alex deve avere imparato cose preziose della vita. Anche se probabilmente non è la saggezza la caratteristica più spiccata di Zanardi, che anzi era una testa caldissima in pista, uno che ha appiccicato un sacco di macchine ai muri, che aveva solo le marce alte in testa e che si infilava anche in fessure impossibili per tentare un sorpasso. Il pubblico amava il suo ardire, specie gli americani, amava l’italiano che dà spettacolo o che butta via un podio per una botta di sfortuna o una guasconata. Ma non è per questo vincere o perdere in macchina che c’è un’Italia sospesa a trepidare sulle sorti di un ex ragazzo, diventato un’ispirazione per chiunque si trovi davanti un muro, che sia fisico o meno, apparentemente invalicabile. Il motivo di questo sentimento collettivo l’ha spiegato lui stesso quando gli chiedevano che cosa fosse cambiato tra la prima vita che si è costruito e la seconda che si è regalato. «A parte quattordici chili di gambe in meno?». A parte. «Quando correvo vicino ai 400 all’ora sulle piste di tutto il mondo, ero io da solo. Adesso, su quell’handbike, c’è il mio Paese che spinge con me. Sento che la gente mi vuole bene. Anche se in fondo non ho fatto niente di speciale: a un certo momento, ho preso la bicicletta e ho pedalato». Sandrino Zanardi da Bologna, l’uomo che visse due volte. Entrambe col sorriso, nascondendo il pianto. Ti preghiamo: facciamo tre.
CORRIERE.IT
Pages: 1 2