Venezuela (e non solo), calcoli errati a Ovest
Ma dobbiamo constatare che c’è un’altra parte di popolo venezuelano, probabilmente maggioritaria, che invece è schierata con il governo. Il che dovrebbe indurci non tanto a cambiare opinione su Maduro, quanto piuttosto a riflettere meglio su cosa augurarci per sperare in un virtuoso cambio di regime.
E qui ci vediamo costretti ad ammettere che le politiche antichaviste messe in campo dagli Stati Uniti, dall’Europa (quasi per intero), vale a dire di quello che ai tempi della guerra fredda definivamo Occidente, sono state improvvide. Sempre. Il colonnello Hugo Chávez, dopo aver fallito un colpo di Stato nel 1992 (e aver trascorso due anni in prigione), alla fine del secolo scorso era andato al potere in seguito a elezioni abbastanza regolari. Si era poi applicato alla costruzione di un suo modello bolivariano finché nell’aprile 2002 era stato deposto da un golpe ordito da Pedro Carmona Estanga, con l’appoggio degli Stati Uniti. In quei giorni Chávez fu deportato nell’isola di La Orchila dove lo raggiunse il vescovo di Caracas Antonio Ignacio Velasco García per convincerlo a rinunciare «spontaneamente» al potere. Ma, proprio mentre l’alto prelato si trovava a colloquio con Chávez, imponenti manifestazioni in sostegno del leader spodestato avevano convinto Estanga a gettare la spugna. Talché l’uomo che si proclamava erede di Simón Bolívar tornò alla guida del Paese con un prestigio molto accresciuto che ne avrebbe fatto un leader indiscusso. Fino a quando morì (di cancro, nel 2013).
Gli successe Maduro che, non avendo potuto ricevere in eredità l’autorevolezza del predecessore, navigava tra le difficoltà riconducibili al suo modello politico e all’ostilità dei Paesi Occidentali. Nel frattempo era cresciuta un’opposizione che, pur tra molti impedimenti, aveva saputo imporsi anche sotto il profilo elettorale. Maduro aveva reagito varando un modello eccessivamente innovativo sotto il profilo della democrazia rappresentativa. Uno stallo. Poi le contestate elezioni presidenziali del 2018. Il 23 gennaio del 2019 il presidente dell’Assemblea nazionale Juan Guaidò, leader dell’ opposizione, si proclamò presidente pro tempore con l’intenzione di deporre Maduro e indire nuove elezioni. Guaidó ricevette immediatamente il riconoscimento degli Stati Uniti e di quasi tutta l’Europa. Ma non del nostro Paese che (su iniziativa grillina) si tenne neutrale. Né della Chiesa che, stavolta, lasciò ad esporsi il cardinale americano Sean Patrick O’Malley il quale in un’intervista a questo giornale disse che solo Guaidò avrebbe potuto scongiurare la guerra civile.
Ma la guerra civile non ci fu. E Maduro forte di un evidente sostegno di parte della popolazione restò al suo posto. Malgrado le sanzioni imposte al Venezuela. Nelle settimane successive al pronunciamento di gennaio Guaidò annunciò di essere appoggiato dai militari, riuscì a liberare dagli arresti domiciliari Leopoldo Lopez, leader dell’opposizione prima di lui, viaggiò in Europa e, di ritorno dall’estero, poté tranquillamente rientrare nel suo Paese. Recentemente il procuratore generale del Venezuela lo ha accusato di aver reclutato mercenari (ne sono stati arrestati quarantacinque, tra i quali due cittadini statunitensi). Poi il ministro degli Esteri, Jorge Arreaza, ha raccontato che Guaidò e i suoi avevano trovato rifugio nell’ambasciata di Francia provocando sdegnati dinieghi da parte dell’ambasciatore. Che dire? Pur mantenendo intatte le perplessità sul regime di Maduro, dobbiamo ammettere che sarebbe improprio definirlo una «dittatura». Quanto a Guaidò, va aggiunto che la sua autoproclamazione a presidente di un anno e mezzo fa era quantomeno basata su un calcolo errato della disposizione delle forze in campo.
Resterebbe da fare qualche considerazione sulle scelte di politica internazionale degli Stati Uniti, dell’Europa, dell’Occidente. Il bilancio di «noi occidentali» (e da qui usiamo di proposito le virgolette) non è esaltante. In pratica è dalla Seconda guerra mondiale – quando «riuscimmo» a dar vita a sistemi democratici nei tre Paesi sconfitti (Germania Ovest, Italia, Giappone) – che non se n’è più azzeccata una. Le intenzioni delle «nostre» scelte talvolta erano ottime. Ma i risultati non sono stati mai all’altezza delle attese. Anzi. Ai tempi della guerra fredda «aiutammo» a nascere regimi dispotici fino all’imbarazzante caso del Cile (1973). Nei migliori dei casi, come per la guerra di Corea (1950-53) alla fine si tornò al punto di partenza. Nei peggiori, Vietnam (1961-75), ci siamo lasciati alle spalle dittature di coloro contro i quali «avevamo combattuto». Caduto il muro di Berlino, abbiamo elaborato la dottrina dell’«esportazione della democrazia» e «ci siamo applicati» ai Paesi arabi con risultati sconfortanti. In generale caos (Somalia, Iraq, Siria, Libia). Oppure consolidamento di satrapie preesistenti. Nel caso di guerre civili, come quella libica, «abbiamo parteggiato» ora per il legittimo Serraj ora per il suo rivale Haftar con imbarazzante disinvoltura. Potremmo rincuorarci sostenendo che la categoria di «noi occidentali» non esiste e che sarebbe più corretto procedere a un esame caso per caso. Con i dovuti distinguo. Vero: per quel che riguarda la contesa venezuelana, ad esempio, l’Italia si è tenuta in disparte. E si è rivelata, la nostra, una scelta saggia. Ma, a ben riflettere, non è una grande consolazione.
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