Dei 44 miliardi dell’Europa usati solo 18. Perché non spendiamo questi soldi

Il nuovo fondo

Mes e le condizioni per l’Italia: come si incassano 40 miliardi dall’Europa?

di Federico Fubini

Il bacino europeo rischia di chiudere e dunque, in affanno, all’ultimo si sparge l’acqua per rinfrescare l’ambiente (e si ottiene un po’ di consenso), la si butta letteralmente via o la si impiega per opere secondarie e inutili (la rotonda stradale nel nulla, il marciapiede rifatto in extremis). Il cavallo, nel frattempo, forse è già morto, ma la politica ha innaffiato le piante (gli elettori). L’intermediazione vince sul bisogno reale delle comunità locali e di quella nazionale.

Formazione professionale, il buco nero

Nel caso della formazione professionale si è formato una sorta di buco nero che non sempre ha migliorato il capitale umano, ma certamente ha ingrassato filiere personali e appartenenze di vario tipo. Il contributo è non raramente considerato un sussidio dovuto. L’idea che l’investimento debba avere un ritorno e generare reddito e lavoro è del tutto eventuale. E così che la spesa in sanità e l’acqua sparsa per rinfrescare l’ambiente e creare il consenso è priva di qualsiasi costo opportunità. E’ la logica perversa del bene comune che appartenendo a tutti non è di nessuno. E dunque si può sprecare. Nessuno ne porta la responsabilità. Ora l’impegno è quello di spezzare questo circolo vizioso. dl semplificazioni

Appalti veloci per i cantieri, limiti all’abuso d’ufficio. E spunta un condono edilizio

di Enrico Marro

I fondi europei per il Sud

Il ministro per il Sud e la Coesione territoriale promette ora di riprogrammare gli interventi e di liberare gran parte dei 10,4 miliardi a disposizione per interventi nelle aree più svantaggiate del Paese. La pandemia ha indotto le istituzioni europee, con due nuovi regolamenti, a concedere maggiori margini di flessibilità anche per far fronte all’emergenza sanitaria, economica e sociale. Provenzano ha lavorato in stretto contatto con il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, con la sua collega alla Coesione e alle Riforme, Elisa Ferreira, e con il vicepresidente Frans Timmermans. «Per entità, dimensione finanziaria ed effettiva semplificazione procedurale – spiega il ministro –si tratta della più importante riforma della politica di coesione degli ultimi dieci anni e va pressoché totalmente nella direzione da sempre sostenuta dall’Italia con i governi di qualsiasi orientamento».

Le ragioni del fallimento

Ma perché, in questi lunghi anni, gli interventi sono stati così problematici e dispersivi? Provenzano parla di una condizione di «solitudine» della politica di coesione europea nel nostro Paese. Spesso i fondi comunitari sono stati impiegati alla stregua di una spesa sostitutiva e non aggiuntiva, come vorrebbe lo spirito della solidarietà tra i membri dell’Unione. La parcellizzazione ha raggiunto livelli estremi. «Se volete farvene un’idea – spiega Luca Bianchi, direttore generale di Svimez andate sul portale Opencoesione.gov.it. Nel sito si registra lo stato di avanzamento dei vari programmi comunitari. Scoprirete che dei 44,7 miliardi a disposizione del nostro Paese, nel periodo di bilancio Ue 2014-2020- e il tempo scorre inesorabilmente – sono stati attivati progetti per soli 18 miliardi. Ma sono più di 595 mila programmi, il che vuol dire che hanno una dimensione media di circa 30 mila euro. Tranne poche eccezioni, non ci troviamo di fronte a scelte strategiche, su scala adeguata, e con un orizzonte di crescita. E’ venuta meno, in molti casi, la distinzione fondamentale tra risorse ordinarie e straordinarie. I fondi sono ripartiti in anticipo e diventano, nella sostanza, di proprietà esclusiva dei beneficiari, Regioni e ministeri».
La perdita di competenze tecniche degli enti locali ha impoverito e semplificato la qualità degli interventi. L’assenza di una governance centrale ha lasciato spazio alle gelosie regionali e ai particolarismi dei territori. L’Agenzia per la coesione presso la presidenza del Consiglio – che in teoria doveva coordinare gli interventi e gli investimenti nell’obiettivo di avere un quadro d’insieme coerente – si è di fatto trasformata in una sorta di grande consulente alla rendicontazione. Gli accordi sottoscritti con i ministeri responsabili e con alcune Regioni dovrebbero ora garantire il mantenimento del vincolo di destinazione territoriale delle risorse, messo in passato tante volte in discussione.

I fondi strutturali europei

La revisione dei Programmi operativi nazionali (Pon) ha toccato i 5,4 miliardi. Con una significativa quota di fondi strutturali europei (Fesr, Fondo europeo di sviluppo regionale e Fse, Fondo sociale europeo). Per esempio, alla scuola, vanno circa 730 milioni, di cui la metà di fondi strutturali europei. Il ministero dello Sviluppo ha potuto destinare 1,480 miliardi al fondo di garanzia per le imprese. La riprogrammazione con le Regioni è più complessa. E si è fermata a 5 miliardi, di cui circa 3 nel Mezzogiorno, sommando gli importi dei due fondi strutturali europei. «Largamente al di sotto delle nostre stime – ammette lo stesso ministro – e senza un vero coordinamento centrale sarà estremamente difficile in futuro accelerare gli investimenti ed evitare sprechi». Sono state però fissate delle linee guida per i Programmi operativi regionali (Por). Il grado di «resistenza proprietaria» delle Regioni rimane piuttosto elevato (l’acqua è mia e guai a chi me la tocca). Ora vediamo se Provenzano riuscirà a invertire tradizioni consolidate di ritardi e sprechi. L’imminenza delle elezioni regionali non aiuta. E l’emergenza sanitaria e sociale spesso è tale da non consentire di distinguere i bisogni dagli abusi, i programmi d’investimento dalla manutenzione delle relazioni e la difesa delle rendite di posizione. L’Europa osserva, gonfia di troppi pregiudizi. Ma questa volta sono in gioco risorse ben più ampie e vitali per il futuro del Paese.

CORRIERE.IT


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