L’alibi (per tutti) del capitano Salvini
«Non possiamo consegnare l’Italia a…». Lo spauracchio ha contribuito a far nascere (e vivere) la coalizione di Cinque Stelle, Pd, Leu, Italia viva. E adesso, dopo il virus e la chiusura? Davanti a una prateria, un Paese da riacciuffare e rimodellare, che è un po’ il sogno di ogni leadership del mondo, si può scegliere la paura o lo slancio. L’alleanza, per ora, sta percorrendo la terza via: una lunga attesa tra vertici, annunci, riflessioni, Stati generali e particolari. Le incertezze del centrodestra e l’aiuto dell’Europa non hanno stimolato ma quasi paralizzato la maggioranza. La coalizione «contro» non è diventata «per». O non ancora, per gli ottimisti. E neppure i due grandi temi del futuro, l’esplosione del digitale, che abbiamo vissuto con la pandemia, e la nuova sensibilità per l’ambiente, come dimostrano le elezioni in Francia, riescono a saldare o almeno avvicinare i Cinque Stelle e i democratici. Sono argomenti cari alla sinistra e nel codice genetico dei grillini: però deve essere più divertente litigare sul Mes. Gli alleati sono convinti che il «nemico» sia a disagio e allora prendono tempo: però qui, a disagio, c’è il Paese stesso.
Ma non è un gioco dire che Salvini è stato anche l’alibi di se stesso. La lotta più che il governo, la propaganda battente e permanente, il bagno di mare e di folla come cifra politica. Una stagione che forse è finita. Da quando entrò nel consiglio comunale di Milano con 194 voti e Formentini sindaco, a vent’anni, nel giugno del ’93, Salvini ha vissuto quasi tutti i giorni in campagna elettorale (e potrebbe essere un record mondiale). Con la forza di prendere un movimento del Nord per il Nord e di trasformarlo nel primo partito italiano, ma anche con la difficoltà o impossibilità di tradurre gli umori, le proteste, le ansie, in una vera proposta di governo. In un’estate con meno piazze, meno spiagge, addirittura meno selfie, gli toccherà fare politica e cercare la centralità smarrita. Se ne sarà capace.
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