Il ruolo dei magistrati e le insidie della politica
Essa era invece ben presente a uno dei massimi tra i gli autori del nostro testo costituzionale, Costantino Mortati, il quale in sede costituente propose un rimedio semplicissimo. E cioè, aggiungere all’articolo 101 le seguenti parole: «i magistrati (…) non possono accettare dal governo funzioni retribuite, a meno non le esercitino gratuitamente». Forse avrebbe dovuto aggiungere, oltre che dal governo, «da qualunque altro organo dell’ordinamento della Repubblica e dalla Corte costituzionale». Fatto sta che la proposta di Mortati non fu accolta, sicché oggi non solo abbiamo «un’enorme quantità di incarichi di vario tipo che ormai caratterizza la magistratura» (Flick) ma soprattutto, attraverso l’istituto della collocazione fuori ruolo, un gran numero di magistrati sono distaccati in posizioni chiave presso le Commissioni parlamentari e i Ministeri, presso la Presidenza della Repubblica, presso la Corte costituzionale, alla testa di un gran numero di Autorità indipendenti di controllo e di garanzia. Distacchi — naturalmente ambitissimi — a cui non si accede certo per concorso bensì, diciamo così, per chiamata diretta. Il che conduce inevitabilmente a chiedersi: che razza d’indipendenza dalla politica può mai incarnare una prassi per cui qualunque magistrato si trova (legittimamente intendiamoci, legittimamente) a poter aspirare di essere cooptato dalla politica stessa per entrare nel suo mondo, nel mondo delle stanze dorate, delle decisioni che contano, del potere e delle sue multiformi attrattive, che però è anche il mondo per definizione delle mutevoli maggioranze politiche, un mondo certamente assai più seducente di quello della giurisdizione? Come si può non sospettare che in qualche modo molti ispirino la loro attività di magistrato a questo legittimo desiderio?
Sempre restando in questo ambito mi sembra che una spessa ombra sull’«indipendenza della magistratura» com’è comunemente concepita dalla stessa, la getta in particolare anche la presenza di magistrati — per l’appunto distaccati — in tutti o quasi tutti i posti apicali del ministero di Grazia e Giustizia. Infatti, dal momento che è pacifico che un ministero è parte cruciale dell’organizzazione del governo politico-amministrativo del Paese, che un ministero costituisce una struttura propria del potere esecutivo (non a caso è guidato come si sa da un ministro, cioè da un membro dell’esecutivo), che cosa ci fanno nei suoi posti di comando, mi chiedo, un così folto gruppo di rappresentanti del potere giudiziario? Che cosa ne è in tal modo nell’aureo principio della separazione dei poteri così ovviamente connesso a quello dell’indipendenza della magistratura?
Peraltro è proprio tenendo presente questo insieme di situazioni — le quali si possono immaginare necessariamente dominate da un certo grado d’ambiguità, da relazioni personali non sempre trasparenti e da potenziali conflitti d’interesse — che si ha modo di capire una delle ragioni di fondo della degenerazione del Csm. Del suo inevitabile precipitare nella palude dell’intrallazzo correntizio e della collusione con la politica. Inevitabile perché è proprio il Consiglio superiore che ogni volta ha il potere di concedere o di negare al singolo magistrato l’autorizzazione necessaria per accedere a un incarico extragiudiziario, di fatto per concedergli o no il grande salto d’immagine e di potere verso l’empireo sociale. Con l’ovvia — inevitabile appunto — conseguenza di trasformarsi in un luogo di scambi, di reciproche concessioni, di do ut des, per accedere al quale diviene di fatto obbligatoria per ogni candidato a un incarico importante l’ascrizione a un gruppo, a una corrente in grado di prendere le sue parti nel sinedrio al momento della decisione. Il rimedio? Uno solo, mi pare: quello indicato da Mortati oltre settanta anni fa.
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