Anche nella ricca Milano la gente ha fame
«Pronto? Chiamo dal Pane quotidiano, dove possiamo raggiungerla? Non esca, veniamo noi». Un numero, e un passaparola che diventa la mappa di un altro contagio, quello della povertà. I mezzi dell’associazione che ogni giorno aumentavano il numero dei viaggi, dei pacchi, della lista dei bisognosi: «anche la sua vicina ha bisogno? Non abbia vergogna, ci dia il numero la chiamiamo noi».
Il 4 giugno la sede di viale Toscana ha riaperto, la fase tre dell’aiuto coincide con la riorganizzazione degli spazi. Gli utenti non entrano più a scegliere i prodotti ma aspettano a distanza il turno di ricevere un pacco di cibo già sigillato. È sabato mattina, il cancello apre alle 9, ma alle sei la fila già gira l’angolo, arriva ai cilindri del nuovo Campus Bocconi, simboli di una città che sono due.
Due voci distinte, due direzioni contrarie.
Facce note e facce nuove, quelle delle nuove urgenze, delle nuove povertà.
Flavia è un’insegnante in un liceo, fa la volontaria da un anno e mezzo, apre la busta: pasta, pelati, sottilette, biscotti, tonno e ceci in scatola, banane «l’aiuto è reciproco, non allunghiamo una mano verso chi la tende, qui ci diamo la mano. È molto diverso, per chi da e chi prende».
Flavia avvicina le vulnerabilità con discrezione, una delicatezza che si adatta alle età e le religioni, alla conoscenza pregressa, l’imbarazzo dell’estraneità per i nuovi arrivati, inesperti a chiedere, inesperti ad accettare.
Mariana è di origine rumena, in Italia da vent’anni, ha lavorato come
badante, lavapiatti, poi un contratto in una ditta di pulizie nelle
catene di hotel di lusso. Aspetta la cassa integrazione da marzo, ma niente. Ha tre figli, il più piccolo è in coda con lei.
È la prima volta che ha difficoltà a fare la spesa, prima dell’epidemia
il solo imbarazzo che ricorda è dover spiegare ai ragazzi di non
potersi permettere le scarpe e le felpe di marca, o che non ci fossero
abbastanza soldi per ricaricare il telefono ogni settimana.
Poi una mattina si è alzata e nel frigo non c’era più nulla, nel
portafogli nemmeno «non avevo risparmi e mancava il necessario». Non
vuole piangere, perché suo figlio è lì e perché è sola da tanti anni a
crescere i ragazzi e le lacrime sono un lusso che è abituata a non
concedersi. Afferra la busta e la stringe come si stringono le cose
indispensabili, come l’aria mentre vai a picco «ci riprenderemo da
questa vergogna?». Il saluto di Mariana è una domanda. Flavia la
rincuora «rubare è vergogna», ma Mariana scuote il capo. «No – replica –
perché quando non hai niente, se nessuno ti aiuta e hai bocche da
sfamare, sei pronto anche a rubare».
La disperazione della fame può rovesciare le logiche del buon senso e i
volontari delle organizzazioni caritatevoli oggi sono chiamati anche a
questo: arginare la vulnerabilità prima che diventi devianza.
Anna ha lo sguardo di una donna coriacea. Fuori dalla mascherina ha gli
occhi di una tenacia irriducibile. Ha lavorato per cinquant’anni, da
quando ne aveva tredici. Prima come commessa, poi tanti altri lavori in
nero, fino alla pensione minima che non basta per lei sola, figuriamoci
ora che divide casa e soldi con il figlio: fino a febbraio lavorava a
ore in una palestra e ora non più. La povertà per lei è un gesto, anzi
due. Fa qualche passo indietro, la mano destra abbassa la mascherina
fino al mento, Anna apre la bocca e allarga il sorriso: «vedi? Non è più
solo questione di mangiare e non mangiare. È come fare a mangiare».
Le mancano la metà dei denti, quelli che restano sono guasti, «non so da
quanti anni non vado dal dentista, non me lo posso permettere». E
quando con altrettanto decoro sistema di nuovo gli elastici intorno alle
orecchie si avvicina e si arrende allo stato d’animo che l’ha
accompagnata in coda a viale Toscana, l’abbattimento «è una vecchiaia
pesante, lo so che la vita cambia e so che la vita è fatta a scale, ma
non si può sempre scendere e scendere».
Poi sistema la chiusura lampo del carrello e cammina verso la fermata
dell’autobus con una busta di spesa e un rinnovato imbarazzo.
Jole ha ottantasei anni, vive con gli 850 euro di pensione, 600 vanno
via per l’affitto. La matematica del bisogno è presto fatta. Prima
dell’epidemia pranzava nelle mense per risparmiare su un pasto, poi
anche per le mense gli orari e i posti si sono ridotti e Jole è rimasta
sola in casa con poco da mangiare. Ha il corpo minuto della
vecchiaia che si ricurva su sé stessa, i volontari la conoscono e lei
ricambia i sorrisi chiamando tutti per nome. «Alla mia età è più brutto
essere da soli che essere affamati». Così ogni mattina Jole si sveglia e
si impone di fingere che vada tutto bene.
Soprattutto ora che ha ricevuto l’avviso di sfratto.
La prima pagina del settimanale in edicola e online da domenica
«Che c’è di buono oggi?».
«La robiola fresca, Jole», e lei accetta grata, si ferma a parlare
ancora un po’ mentre Flavia conta le persone arrivate fino a quel
momento.
Sono le nove e quaranta.
Le buste consegnate sono già trecentottantasei.
Secondo l’ultimo rapporto Istat sulla povertà in Italia vivono 1,7
milioni di famiglie, 4 milioni e mezzo di persone, in condizione di
povertà assoluta e 3 milioni di famiglie (nove milioni di persone) in
povertà relativa. L’istituto di statistica fotografa un paese che sono
tre, la percentuale di famiglie in povertà assoluta al Sud è infatti
l’8,6% del totale, percentuale che scende a 5,8 al nord e 4,5 al centro.
Le differenze geografiche non sono le sole: sono più povere le famiglie
più numerose e sono più povere le famiglie di cittadini stranieri
residenti. Il 26,9% a fronte del 5,9% delle famiglie italiane.
I dati del rapporto si riferiscono al 2019, la preoccupazione del terzo
settore è che i numeri del prossimo anno siano destinati a crescere come
conseguenza dell’epidemia.
«Nel 2019 abbiamo distribuito 75 mila tonnellate di alimenti, durante
l’emergenza le richieste sono aumentate del 40% in tutta Italia con
picchi del 70% al Sud». A parlare è Giovanni Bruno, presidente del Banco
Alimentare, organizzazione che dal 1989 si occupa di recuperare
alimenti e distribuirli a persone in difficoltà attraverso 7500
strutture caritative.
«Aiutiamo stabilmente un milione e mezzo di persone da tanto tempo, ma
l’immagine del paese in stato di bisogno che ci sta restituendo questa
crisi è del tutto inedita», continua Bruno. Solo a Milano le persone
aiutate sono 215 mila, in costante aumento da marzo. Ma Bruno è sicuro
che il picco arriverà in autunno. I virologi temono la seconda ondata
del Covid, le organizzazioni caritatevoli pensano inevitabile
l’inasprirsi della povertà con la fine dei risparmi, delle casse
integrazioni e con le attività commerciali che stentano a ripartire. «Si
sta ampliano la forbice, ci telefonano giostrai e cuochi, lavoratori
dello spettacolo e commesse, camerieri e studenti che si vergognano di
chiedere aiuto ai genitori. Il tema è: ora ci affanniamo a riassorbire
gli effetti della pandemia. Ma già prima c’erano quasi cinque milioni di
poveri assoluti e tra loro più di un milione di bambini. Tornare a
prima significa tornare a questo e non è una prospettiva allegra».
Nel magazzino del Banco Alimentare ci sono beni recuperati dalla grande
distribuzione e quelli finanziati dal Fondi per gli aiuti europei agli
indigenti (Fead) che ha un bilancio di 3,8 miliardi di euro per il
periodo 2014-2020 e un obiettivo: la lotta alla povertà e all’esclusione
sociale.
Per le istituzioni europee un cittadino si considera gravemente
indigente se non può permettersi un affitto o le bollette, se non può
riscaldare casa, mangiare proteine di qualità volta ogni due giorni,
usare un’automobile, una lavatrice o una tv a colori e permettersi un
telefonino.
Marianna non può permettersi niente di tutto questo, arriva che è quasi
sera in una parrocchia della periferia di Milano con due delle tre
figlie, non avrebbe mai immaginato, prima di Marzo, di bussare alla
porta della sagrestia per chiedere da mangiare. Ha lavorato in una mensa
scolastica per diciannove anni, con un contratto a part time di nove
mesi, e lo stipendio che doveva bastare per dodici facendo economia su
tutto. Sua figlia Giulia che oggi ha 23 anni ha lasciato la scuola a 15
per aiutare la madre a crescere le sorelle. Ha lavorato come barista e
cameriera quasi sempre in nero, poi vari stage che non sono diventati
contratti di lavoro e a febbraio stava ultimando una prova che sperava
diventasse un apprendistato.
Poi la pandemia ha tradotto quella speranza nell’ennesimo «le faremo sapere».
Marianna ha smesso di pagare affitto e bollette, la cassa integrazione, arrivata con tre mesi di ritardo, è di 340 euro. Dice di sé che ha imparato a essere sorridente, che quando hai tre ragazze in casa da sfamare la vergogna sparisce, le prendi per mano e insegni loro che a volte nella vita bisogna chiedere aiuto e che stavolta è toccato a loro.
Giulia annuisce, la guarda con ammirazione. Condividono otto anni di privazioni e fatiche comuni.
«Non sappiamo più cosa sacrificare, ho smesso di studiare, ho lavorato mentre i miei coetanei si divertivano – dice Giulia stringendo forte la mano di sua madre – e alla speranza di una vita più bella non voglio rinunciare. Per me e le mie sorelle».
Che rischiano di diventare le bambine in povertà assoluta del prossimo rapporto Istat.
L’ESPRESSO
Pages: 1 2