La cascata di regole per «semplificare»

Per semplificare si dovrebbe innanzitutto deregolare, mentre, invece, il decreto legge in corso di approvazione prende la strada opposta: regola troppo, prevede cascate di altre norme e regolamenti; affianca alle procedure normali procedure speciali, complicando la vita dei gestori; non elimina i troppi compiti (che non hanno nulla a che fare con la corruzione) dell’invadente Autorità anticorruzione; contrabbanda interventi di emergenza (destinati a durare brevemente) come misure di semplificazione; compensa una limatura dei poteri della Corte dei conti in materia di responsabilità dei funzionari con l’ampliamento dei suoi compiti di controllo concomitante (con il quale la Corte diventa l’angelo custode della burocrazia); affianca ai tempi previsti dalle norme quelli effettivi, richiedendo agli uffici di compararli: un invito a non rispettare la legge.

Nell’ultimo esercizio di Palazzo Chigi non mancano norme ingegnose (come quella sulle detrazioni fiscali dei maggiori oneri regolatori introdotti con atti normativi, una specie di ammenda disposta a proprio carico dallo Stato), ma sono assenti i punti fondamentali suggeriti dai maggiori esperti di semplificazione (per citarne soltanto due, Alessandro Natalini e Luigi Donato, che hanno dedicato le loro energie alla «semplificazione paziente»).

Tutti coloro che finora si sono dedicati con serietà alla semplificazione dello Stato sanno che i punti cardinali sono altri. Primo: semplificare le leggi, quindi creare un centro di valutazione e produzione delle politiche pubbliche, capace anche di tradurle in disposizioni comprensibili, perché più della metà delle complicazioni amministrative dipende dalla pessima fattura delle norme. Secondo: ridurre il numero dei decisori; ad esempio, diminuire il numero delle stazioni appaltanti e sopprimere il Cipe, un organo che sopravvive da troppi anni alla morte della programmazione, di cui faceva parte, e che serve oggi solo a coprire l’invasione di Palazzo Chigi nella gestione della politica economica. Terzo: sopprimere gli incentivi al non fare, derivanti dalla paura degli interventi delle procure, penali e contabili, e dei relativi sosia (ad esempio, Anac). Quarto: dotare l’amministrazione di quei tecnici e manager pubblici che ha perduto da un secolo, e al cui reclutamento sarebbe bene che i ministri della pubblica amministrazione si dedicassero, invece di promettere 400 mila assunzioni – specchietto per allodole. Quinto: invece di cercare tutti i sotterfugi per non fare gare, si facciano le gare, ma senza l’Anac sul collo, in tempi brevi e senza troppi contenziosi. Sesto: si sopprimano tutti i controlli preventivi, concomitanti, collaborativi, per rafforzare quelli successivi, che debbono esser seri e severi, per assicurarsi che i risultati voluti dal Parlamento siano raggiunti. Settimo: adeguare le amministrazioni alla digitalizzazione, non le metodologie digitali alla parcellizzazione degli uffici pubblici, che costringe ancora oggi i cittadini a fare da tramite. Ottavo: non cullarsi al ritmo del «modello Genova», che non è replicabile perché quella era una opera esistente e non è stata finanziata dal Tesoro; gli organi straordinari, quali i commissari, finiscono per produrre intralci.

Da ultimo, consiglio ai semplificatori improvvisati di rileggere Michelangelo: «la scultura non è un fare, ma togliere materia». Impariamo a togliere il superfluo. ​

CORRIERE.IT

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