Pedro Sánchez al Corriere: «Da Italia e Spagna una risposta titanica alla crisi. Il nostro patto per la Ue»

Si può parlare di un patto, di un’alleanza politica tra lei e Conte per chiedere all’Europa una svolta, per la solidarietà e gli investimenti?

«Sì. Questa alleanza, questo patto tra Italia e Spagna è necessario e può portare grandi frutti all’Europa. Siamo due popoli fratelli, mediterranei, europeisti. Abbiamo avuto dissidi, ad esempio sull’immigrazione…».

Sull’immigrazione l’Italia è stata spesso lasciata sola.

«E invece dobbiamo dare una risposta comune, all’insegna della responsabilità e della solidarietà, sull’immigrazione e sul resto. Siamo stati colpiti dal virus più di altri perché siamo due Paesi aperti, con una forte proiezione internazionale. La Spagna è la nazione con più visitatori al mondo, l’anno scorso sono stati 83 milioni: quella che era — e resterà — una forza è diventata una vulnerabilità. Vale per Madrid e Barcellona quello che vale per un’altra città straordinaria come Milano. Ma ora Italia e Spagna possono contribuire a imprimere un cambiamento epocale all’Unione europea».

Il governo italiano e quello spagnolo sono i promotori della lettera al Consiglio europeo del 25 marzo, per chiedere la creazione di debito condiviso. Ora il risultato sembra vicino.

«Lo è. Gli obiettivi sono tre: l’accordo va chiuso entro questo mese; non dobbiamo diminuire la dimensione del Recovery Fund e il rapporto tra la parte a fondo perduto e quella a debito; occorre far arrivare le risorse in fretta e per un arco di tempo lungo, per rendere strutturale la ripresa economica».

L’accordo sul Recovery Fund si può fare davvero entro luglio?

«Si può e si deve. Non possiamo aspettare oltre: i cittadini non capirebbero, gli attori economici neppure. Abbiamo vissuto una pandemia inedita; dobbiamo dare una risposta congiunta e altrettanto inedita. Siamo a un passo da un risultato storico, da un evento decisivo: come per voi la creazione della Comunità europea; per noi l’ingresso in Europa dopo la caduta del regime franchista; per l’Est il crollo del Muro; per tutti la nascita della moneta unica. È storico il momento che stiamo vivendo. Se falliamo, i nostri stessi popoli ci presenteranno il conto. Se riusciamo, possiamo fare un balzo in avanti nella costruzione europea».

Lei crede che la nostra generazione vedrà gli Stati Uniti d’Europa?

«Sì. Se avremo successo in questo momento cruciale, sono convinto che li vedremo».

Non si aspettava qualcosa di più da Francia e Germania? Macron aveva firmato la vostra lettera; poi ha dato l’impressione di riallinearsi alla posizione tedesca.

«L’importante è sottolineare gli elementi comuni delle varie proposte. La Spagna aveva suggerito una dimensione ancora maggiore del Recovery Fund. Ma se ai 750 miliardi indicati dalla Commissione europea uniamo il fondo di assicurazione sull’impiego, il Mes e le risorse della Banca degli investimenti, parliamo di una proposta senza precedenti, superiore ai mille miliardi. L’essenziale è che l’Europa costruisca un proprio modello: trasferimenti, debito condiviso, rilancio dello stato sociale. E rafforzamento della sanità pubblica, che altri Paesi non hanno; e anche per questo sono ancora in grave difficoltà».

Come spiega la ritrosia di alcune nazioni del Nord Europa? Esiste un pregiudizio antilatino? Come se fossimo le cicale del continente?

«Sta a noi dimostrare che questi luoghi comuni non corrispondono alla realtà».

Lei andrà in Olanda e in Svezia prima del vertice di Bruxelles del 17.

«Sì. Ho il massimo rispetto di Mark Rutte e di Stefan Löfven. Ma devono riconoscere che non c’è un Paese che dà e uno che riceve; il Fondo è una cassa comune, cui contribuiscono tutti. E, se non ci muoviamo, è in pericolo anche il mercato unico; da cui i piccoli Paesi dell’Europa centrale traggono un vantaggio maggiore del nostro».

Con quale criterio saranno votati in Europa i piani di spesa dei vari Paesi? L’Olanda chiede l’unanimità.

«La Commissione europea ha già individuato un meccanismo di valutazione che mi pare ragionevole. Non vedo la necessità di veti».

La Spagna userà le risorse del Mes per la sanità?

«So che in Italia è una questione politica aperta. Credo che ogni Paese sia libero di scegliere e non vada stigmatizzato, qualunque sia la scelta. La Spagna ha un accesso adeguato al credito; quindi per ora non vediamo la necessità di ricorrere al Mes».

Lei ha siglato un patto con imprese e sindacati per spendere i 140 miliardi del Recovery Fund che dovrebbero arrivare a Madrid. Come li investirete?

«Transizione ecologica. Inclusione digitale. Formazione e difesa del lavoro. Rafforzamento del welfare. Molte idee sono comuni con l’Italia e con la Commissione europea».

La crisi sarà breve ma sarà dura: l’ha detto lei. Ma quanto breve, e quanto dura? Quanto tempo servirà alla Spagna e all’Europa per riprendersi? Ci attende una stagione di turbolenza sociale?

«Di sicuro l’autunno sarà difficile. Il rischio c’è: sta a noi evitarlo. La pandemia non è stata colpa di nessuno; nessuno deve essere lasciato indietro. Abbiamo superato la prima fase: la resistenza. I nostri Paesi sono tornati al lavoro. Ora siamo nella fase della riattivazione. La caduta del Pil sarà grave; anche perché, dall’America al Medio Oriente, la pandemia non è finita. Ma sono fiducioso che stia cominciando la fase del pieno recupero. Per questo servono politiche fiscali espansive per le imprese e per il lavoro».

Lei personalmente come ha vissuto questa crisi drammatica?

«È stata dura per tutti. A fine marzo morivano mille spagnoli — e mille italiani — al giorno. Non c’era famiglia che non fosse colpita; compresa la mia. Ho scelto di affidarmi alla scienza, agli esperti. Ho evitato fandonie e false rassicurazioni. E ho cercato il dialogo con tutti. Si è creata una forte empatia, tra la gente e tra le istituzioni. Un grande impegno comune, che ora va riprodotto in Europa».

Com’è riuscito a stare vicino a sua moglie Begoña, che ha avuto il Covid?

«Per fortuna era asintomatica; ma anche altri familiari hanno contratto il virus. Tutti abbiamo sofferto. Molti hanno sofferto di più. Gli anziani sono stati messi a dura prova. Sono stato più di tre mesi senza vedere mio padre e mia madre. Ora, per chi è rimasto, è bellissimo ritrovarsi. Posso dirle una cosa? È stata dura chiudersi in casa; ma è dura anche tornare a vivere. Dobbiamo riprenderci le strade. Uscire. Recuperare le vecchie abitudini sociali; che non erano poi così male».

Ma il virus c’è ancora.

«Dobbiamo imparare a conviverci. Ci sono focolai, in Spagna come in Italia. Altri si accenderanno. Non abbasseremo la guardia; ma ora siamo preparati. Conosciamo meglio il Covid-19, il sistema sanitario è più forte di prima. Occorre far ripartire il commercio, viaggiare, ricostruire la normalità».

Se la sente di dire ai turisti che possono venire in Spagna tranquilli?

«Abbiamo fatto tre milioni e mezzo di tamponi, aumentato il personale sanitario negli aeroporti. La Spagna è un Paese sicuro. Certo: il rischio zero non esiste. Ma dobbiamo riconquistare la nostra vita».

Lei ha accusato l’opposizione di aver tentato di usare l’epidemia per far cadere il governo. Parole molto dure. Perché?

«Io ho cercato l’unità con i governi regionali e con le parti sociali, e l’ho trovata; l’ho cercata con i partiti di destra, che invece hanno visto nell’emergenza l’opportunità per buttare giù l’esecutivo. Un approccio incomprensibile. Qui l’unico nemico pubblico era il virus».

Il presidente della Galizia Feijóo, del partito popolare, sostiene che non sarebbe male anche in Spagna una grande coalizione come in Germania. Cosa risponde?

«Che casualmente il Pp parla di grande coalizione solo quando la prima forza è il partito socialista».

Lei non ha mai pensato a un accord o con il Pp?

«No. Sa perché il Pasok, il partito socialista greco, è quasi scomparso? Perché ha fatto la grande coalizione con la destra, proprio mentre la Grecia chiedeva misure sociali».

In altri Paesi, da Israele alla Francia, i partiti socialisti sono quasi scomparsi; e anche l’Spd tedesca non si sente molto bene. Perché al Psoe questo non è successo?

«Non solo per i nostri 140 anni di storia, ma perché abbiamo saputo intercettare i movimenti, e in parte anche la frustrazione e l’indignazione dei giovani. Se ci fossimo richiusi negli apparati e negli accordi di potere, sarebbe andata molto diversamente. Mi chiedono perché in Spagna non c’è un partito ecologista. In realtà c’è: siamo noi. Così come siamo il partito dei diritti delle donne».

Ma il governo progressista è fragile.

«No. È solido».

Alla fine anche in Italia un movimento considerato antisistema e populista si è alleato con il partito storico della sinistra. Il governo Conte somiglia un po’ al suo?

«Non direi. Podemos è molto diverso dai Cinque Stelle. Ed è diverso anche da noi socialisti. Podemos ha preso canzoni e memorie che ci appartenevano, ma le loro radici sono altre rispetto alle nostre; affondano nel comunismo, non nel riformismo. Due dei loro ministri sono comunisti. Certo, in Spagna il comunismo ha combattuto la dittatura, dopo la fine di Franco tornarono in patria figure storiche come Santiago Carrillo e la Pasionaria. E l’evoluzione del comunismo spagnolo ha consentito di applicare pienamente la Costituzione; compreso il riconoscimento del re».

Lei sarà ricordato anche come il presidente che ha riesumato il corpo di Franco dal Valle de los Caídos. È il tempo in cui si abbattono le statue. Era proprio necessario?

«Sì. Un dittatore non merita un mausoleo; e le sue vittime non possono riposare accanto a lui. Ho agito in modo legale, applicando la legge della memoria storica di Zapatero, e con un ampio consenso popolare».

Nel libro «Manual de Resistencia» lei racconta di suo nonno che imparò a scrivere solo dopo la fine della dittatura…

«Sì, e io bambino lo accompagnavo alla scuola per adulti. Ho imparato ad andare in bicicletta nel cortile dell’università Complutense di Madrid, dove mio padre, studente lavoratore, seguiva i corsi serali di economia. Papà aveva solo 21 anni quando sono nato, mamma 19: ha fatto l’università con me, studiando di notte dopo il lavoro. Non vengo da una famiglia ricca né colta, ma da una famiglia che ha creduto nella cultura. Se ripenso a quando ho deciso di fare politica, credo che l’origine sia lì: nelle ferite aperte. Nel pensiero dei nonni analfabeti».

Come sono oggi i rapporti tra il Psoe e la Chiesa, dopo tante tensioni? Qualcosa è cambiato con Papa Francesco?

«I rapporti sono sereni. Francesco è un Papa carismatico, spero di poterlo incontrare. Le racconto una cosa: nella vicenda del corpo di Franco mi ha aiutato. Nel Valle de los Caídos c’era una comunità di benedettini contrarissima all’esumazione. Ho chiesto l’intervento del Vaticano. E tutto si è risolto».

Com’è il rapporto con il re, Filippo VI? Vi siete sentiti spesso durante la pandemia?

«Abbiamo continuato a incontrarci una volta alla settimana. Abbiamo una relazione molto stretta».

Vi date del tu o del lei?

«A un re non si dà del tu. Lui però con me lo fa. Siamo della stessa generazione».

A che punto è la questione catalana? Il dialogo è possibile?

«È possibile e necessario. Nell’ambito della Costituzione».

La preoccupa l’aggressività dell’espansione cinese, in Africa e anche in Europa?

«La pandemia ha cambiato il mondo, e pure le relazioni internazionali. C’è un errore in cui non dobbiamo cadere: credere che ogni Paese europeo possa giocarsi il proprio rapporto unilaterale con la Cina. Siamo troppo piccoli; ognuno di noi soccomberebbe. Di fronte alla Cina, come agli Stati Uniti, all’India, all’Africa, ci deve essere l’Europa. Ma sono sicuro che la Spagna e l’Italia questo errore lo eviteranno».

Lei ha scritto un tweet per Morricone.

«Piaceva moltissimo a me e a mio fratello David, che è direttore d’orchestra e compositore, e parla bene italiano; io purtroppo no, anche se vorrei impararlo. La musica di Ennio Morricone ha accompagnato le nostre vite, e sarà con noi per sempre».

È vero che al termine dell’incontro porterà Conte a fare una foto davanti a Guernica di Picasso, il quadro simbolo della guerra civile?

«Sì. Per me Guernica significa due cose: memoria, ed Europa». La distruzione, e la ricostruzione. «Vedo una spinta europeista che non avevamo visto mai. La crisi del Covid può essere ricordata come il momento storico in cui l’Europa rinacque e costruì il proprio destino».

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