Ancora infetti tra i bengalesi: terrore per i controlli flop
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A testimoniarlo ci sono le immagini scattate sabato mattina lungo i viali alberati di villa De Sanctis, il parco sulla via Casilina dove è stato spostato il servizio di raccolta tamponi. La fila sembra infinita, con gli stranieri in coda sfiancati dal caldo torrido di luglio. Ci sono anche donne e bambini, qualcuno si accovaccia a terra per trovare ristoro. “Gli operatori erano troppo pochi e così si è creato un imbuto”, denuncia Shah. Il portavoce dei bengalesi è indignato: “Stanno sottovalutando i rischi, questa è un’operazione importante, ci deve essere sufficiente personale per poterla portare a termine anche perché la comunità bengalese di Roma è molto estesa, parliamo di circa 12-13mila persone e sinora non hanno controllato neppure la metà della gente”.
La richiesta del presidente dell’associazione è che “venga aumentato il personale in servizio ai drive in e che si si velocizzino gli screening”. La premura di Shah è comprensibile. Il timore è che il quartiere possa trasformarsi in un lazzaretto e che il virus inizi a circolare anche grazie alla promiscuità con cui spesso vivono gli stranieri o a qualche attività commerciale che non rispetta le regole.
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“La comunità del Bangladesh sta collaborando attivamente e prosegue senza sosta l’attività ai drive-in per il contact tracing”, ha detto ieri l’assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D’Amato, comunicando l’apertura di altri due centri per lo screening, a San Giovanni e piazzale Tosti. L’obiettivo è quello di rintracciare un migliaio di persone arrivate da Dacca nelle scorse settimane e potenzialmente infette. A complicare il lavoro di chi cerca di ricostruire movimenti e spostamenti, però, secondo Il Messaggero, ci sono le false residenze indicate sui documenti e sui permessi di soggiorno da almeno uno straniero su due.
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