Quanto poco rimane dietro le parole
Il governo ha deciso che lo stato d’allarme sarà prorogato fino al 31 dicembre, cioè per quasi cinque mesi. D’accordo. In una situazione d’emergenza, anche una forzatura può essere giustificata. Ma per fare cosa?
Le Camere hanno convertito il decreto rilancio. Sono 266 articoli. Come incideranno sulle nostre vite? Ogni piccola impresa, ogni partita Iva andrà alla ricerca di qualcosa che possa riguardarla; ma potrà fidarsi? Arriveranno in tempo i decreti attuativi? O rischiamo di fare la fine dell’università di Pavia, condannata a risarcire gli studenti perché il provvedimento del 2012 sulle tasse non è stato mai tradotto in pratica?
Un tempo si sprecavano soldi. Ora si sprecano parole. Ovviamente, non è solo colpa di un premier, di un ministro, di una formula politica. Non abbiamo nessuna prova che un governo di centrodestra farebbe meglio; anzi, l’inquietante notizia del sorpasso dei pensionati sui lavoratori attivi conferma quale abbaglio abbia preso la Lega nell’imporre quota 100; e il drastico aumento del deficit e del debito pubblico dovrebbe indurre a riporre nel cassetto le velleità sulla flat tax. Quanto a un nuovo esecutivo, con ministri più competenti e più credibili a livello internazionale (il che non dovrebbe essere impossibile), al momento non se ne vedono le condizioni; anche se forse presto se ne vedrà la necessità.
Comunque evolva la situazione, un cambio di passo del governo in carica è forse ancora possibile, oltre che indispensabile. Altrimenti si condannerà da sé, per evidente inazione. Il Paese non può più aspettare. In queste settimane al Corriere sono arrivate migliaia di mail da piccoli imprenditori, artigiani, commercianti. Non sono tutti messaggi di disperazione. La maggior parte è pronta a ripartire. Alcuni settori non hanno mai chiuso. Altri tentano di superare enormi difficoltà. Prendiamo i negozi di abbigliamento: hanno perso la stagione primaverile, devono pagare affitti costosi perché hanno bisogno di vaste metrature e di affacci centrali, non possono e non vogliono rinunciare ai dipendenti. La concorrenza del commercio elettronico è spietata; i consumatori italiani sono inevitabilmente prudenti; e quelli stranieri non ci sono. Prendiamo hotel e ristoranti: molti hanno ancora le insegne sbarrate con i cartelli che invocano l’aiuto del governo; altri hanno tenuto i contatti con la clientela, alcuni cuochi hanno creato il servizio di consegna a domicilio, alcuni albergatori hanno adeguato i prezzi alle tasche dei connazionali; non raggiungeranno certo il fatturato degli anni scorsi, però non si fermano. Sono milioni gli italiani che stanno lavorando magari in pareggio, se non in perdita, ma si mettono in gioco per il gusto del lavoro ben fatto, per il rispetto dei dipendenti, dei clienti, in definitiva di se stessi.
Questi italiani non sono pregiudizialmente contrari a nessun governo, non maledicono la politica, non chiedono di essere mantenuti. Si aspettano di essere sostenuti e non ostacolati. Accanto a loro, c’è una generazione di giovani che si affaccia sul mercato del lavoro nel momento peggiore delle nostre vite. Vogliamo dar loro un’opportunità? C’è un piano, un disegno, un contenuto dietro i titoli del grande convegno chiamato Italia?
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