La notte in cui si litigò più per Casalino che per Benetton
Altra linea di tensione. Lui e il premier si scrutano, si parlano a stento, da settimane ormai, distanza diventata visibile anche qualche ora prima all’ambasciata francese dove si festeggia la presa della Bastiglia. Il premier sa che l’affaire Autostrade è una Bastiglia per il Movimento. E “Luigi” lo aspetta al varco, perché lì rischia di saltare, soprattutto dopo che ha fissato l’asticella alta sulla revoca per conquistarsi la leadership di fatto del Movimento: “Guarda che così, con Benetton dentro, non la reggiamo, non erano questi i patti”. È a qual punto che il premier, a Consiglio dei ministri in corso, chiama i vertici della società autostradale. Bellanova è la più insofferente: “Basta, qui non si capisce cosa dobbiamo aspettare, doveva essere un’informativa, un’ora e andiamo a casa”.
Alle quattro del mattino, qualche ministro si è appisolato, risvegliato da un sussulto quando Spadafora torna con un paio di vassoi di cornetti. Dentro lo Stato con Cdp, i Benetton scendono attorno all’11 per cento, poi lo sbarco in Borsa, questo il canovaccio di mediazione sul far dell’alba: non una revoca, ma una mutazione genetica radicale, con i Benetton che da padroni di Autostrade diventano una minoranza senza una poltrona nel Cda. Il che consente a tutti di cantare vittoria: la famiglia Benetton comunque non è stata cacciata, Conte ha lo scalpo perché le Autostrade non sono più roba loro, il Pd per una mediazione che non fa saltare il Governo.
Evviva, nel day after hanno vinto tutti, soprattutto il mitico “popolo” che si è ripreso le Autostrade. A caro prezzo. Resterà alla storia come il Consiglio dei ministri in cui alle quattro di notte il premier si è “comprato” Autostrade, concordando i dettagli della valutazione, per poi raccontare l’acquisto come fosse una revoca. Una delle ipotesi notturne è che lo Stato paga per avere, attraverso Cdp, l’88 per cento di Aspi che è più di quanto pagherebbe per avere il controllo di Atlantia, il che per Benetton è una profumata via d’uscita più che un calcio nel sedere. E resta la scia di veleni politici, che conduce a un altro classico di questa fase, il rimpasto, valvola di sfogo di un equilibrio in cui i soci fondatori non “ne possono più”, altra frase sulla bocca di tutti stanotte. Lo si è visto questa mattina quando Marcucci e Perilli, i capigruppo di Pd e 5 stelle al Senato hanno avuto una quasi rissa per le commissioni. Rimpasto che non si farà, perché se tocchi una casella viene giù tutto ciò che si regge a stento.
L’HUFFPOST
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