La violenza di Stato
L’indagine sulla caserma Levante di Piacenza è sbalorditiva soltanto per l’ampiezza e l’intensità degli arbitrii, delle violenze e dei reati commessi (ancora da dimostrare, ma già ben definiti). Ma come è stato ripetutamente sottolineato in queste ore, non è successo nulla di nuovo. I pestaggi genovesi del 2001, la brutalizzazione di Stefano Cucchi e gli stupri di Firenze sono i precedenti da vetrina di una lunga collezione, e un giorno o l’altro avremo più chiaro, per esempio, il caso di Mario Cerciello Rega, il carabiniere assassinato un anno fa (26 luglio 2019) – e rimane una vittima, e però di eventi sempre meno limpidi. Ha ragione Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, quando non cede alla retorica delle mele marce e suggerisce che è il sistema a non funzionare più. Però, aggiungo io, non il sistema dell’Arma: tutto il sistema, da cima a fondo. E, per cominciare, non funzioniamo noi.
A marzo durante le rivolte in carcere sono morti tredici detenuti, e non sappiamo ancora il perché. Overdose da metadone, è stato detto nelle ore successive e tanto ci è bastato. Siccome i detenuti sono comunemente considerati cittadini di serie B, mascalzoni giustamente privati di diritti e di dignità, è stata sufficiente un’autodichiarazione delle autorità e chiusa lì. Chi se ne importa. Le torture nel carcere di Torino, di cui si è avuta notizia nei giorni scorsi, non sono soltanto figlie della prepotenza di Stato, ma anche del nostro disinteresse, da cui quella prepotenza trae forza. Continuiamo a pensare che se si finisce dentro è perché qualcosa si avrà fatto, e se si finisce fra i cazzotti dei carabinieri un po’ ce lo si sarà meritato, e i guai dei cittadini sono ben altri, e ben altri i diritti per i quali battersi.
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