Ora all’Europa e all’Italia occorre buon senso

L’Europa non sempre lo capisce, eppure nei momenti decisivi non lo dimentica. La crisi determinata dal Covid-19 è la più recente e tra le più gravi; ma negli ultimi settant’anni di storia condivisa ci sono state altre grandi paure, che hanno prima creato, e poi rinforzato, la comunità degli Stati sul continente.

Il primo grande spavento arrivò dopo la Seconda Guerra Mondiale. È una storia nota, ma è bene ricordarla. Nel faticoso dopoguerra, temendo un altro conflitto rovinoso, gli ex nemici decisero di mettere insieme la produzione di carbone e di acciaio, nel 1951. E poi le loro economie, con il Trattato di Roma del 1957. L’Unione Europea nasce lì.

Il secondo spavento arrivò con lo choc petrolifero, la crisi economica e l’iperinflazione degli anni 70. La Comunità Economica Europea – dopo aver accolto Regno Unito, Irlanda e Danimarca nel 1973 – iniziò a lavorare all’idea di un mercato unico, elaborato dalla Commissione negli anni Ottanta e pienamente realizzato nel 1992.

Il terzo spavento arrivò con la caduta del comunismo, tra il 1989 e il 1991. L’Unione Europea fu presa dal panico: l’Unione Sovietica e il blocco orientale erano avversari conosciuti e, in qualche modo, rassicuranti. Ma poi capimmo che si trattava di un’opportunità storica. E riportammo le nuove democrazie centro-orientali nella famiglia europea.

Siamo al quarto spavento, seguito alla crisi finanziaria del 2008-2009. La Grecia ha rischiato il default; l’Italia ci è andata vicino. Molti hanno previsto il crollo dell’euro, introdotto pochi anni prima: e non è avvenuto. Sono state invece introdotte nuove regole per i bilanci nazionali e per le banche.

Quinto spavento: Brexit. Alcuni temevano – qualche sovranista sperava – che, togliendo un’architrave, la costruzione europea crollasse. Non è accaduto. La Gran Bretagna è uscita dall’Unione e, nonostante il dispiacere e le difficoltà, la casa comune ha retto. C’è chi pensa che il Recovery Fund – l’idea di introdurre nuove risorse proprie e un debito comune – non sarebbe mai stato approvato, se Londra fosse rimasta dentro l’Unione Europea.

Il sesto e penultimo spavento è legato alla rumorosa avanzata dei partiti populisti e sovranisti, che del disprezzo per l’Unione Europea avevano fatto una bandiera. L’elezione nel 2016 di Donald Trump, per cui la Ue è solo un fastidio, ha aumentato l’allarme. Alla prova dei fatti – le elezioni europee del 2018 – i sovranisti hanno mostrato di raccogliere un consenso limitato. E quando sono arrivati al potere – in Italia, in Polonia, in Ungheria – non hanno creato lo sconquasso che qualcuno temeva.

La settima crisi – quella attuale – porta il marchio del virus. Dopo un approccio timido e inadeguato, l’Unione Europea ne esce più coesa; l’Italia, sollevata. Il premier Conte si è confermato un abile negoziatore. Non tanto perché saremo i principali beneficiari del Recovery Fund – ogni italiano riceverà 500 euro netti, ogni tedesco ne verserà 840 e ogni olandese 930 – ma perché l’Italia ha saputo tranquillizzare i pesi massimi del continente, Germania e Francia, senza spaventare i Paesi più piccoli.

Ora il nostro capo di governo dovrà decidere come usare le nuove risorse, affrontando il rischio dell’impopolarità che ogni decisione comporta. Pubblica amministrazione, infrastrutture e territorio, istruzione, giustizia, fisco: le priorità sono note. L’Italia resta un’osservata speciale: saprà spendere con buon senso e precisione? Il Recovery Fund dovrà, infatti, essere ratificato da ogni Parlamento nazionale. Sì, anche da quello olandese.

L’Italia, come l’Europa, è con le spalle al muro. Potrebbe rivelarsi una benedizione. Perché anche noi, in quelle condizioni, diamo il meglio. Ma non è una posizione che si può reggere a lungo. Dal muro bisogna staccarsi, e avanzare. Occorre coraggio. Speriamo che Giuseppe Conte, il suo governo e la sua maggioranza riescano a trovarlo.

CORRIERE.IT

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