Difficile fare le riforme se non hai i riformisti

E a distanza di mesi si può apprezzare meglio la parabola opposta dei due protagonisti del duello di un anno fa, Conte e Salvini. Il presidente del Consiglio era un Re di latta e ora si presenta come un leader d’acciaio, pochette a parte. Il capo della Lega, al contrario, appariva come un guerriero invincibile, nell’estate scorsa, e oggi si dimena come il comprimario di un partitino a caccia di visibilità. Mercoledì 22 luglio, durante il dibattito al Senato sulle comunicazioni post-consiglio europeo di Bruxelles, l’ex ministro dell’Interno si è esibito con un’orazione scomposta, confusa, allucinata: «Mamma!», ha esclamato a metà discorso, tra le ironie e le interruzioni, regredito al punto di partenza, quando faceva il monello del consiglio comunale a Palazzo Marino a Milano.

Luigi Di Maio
Luigi Di Maio

È la rappresentazione italiana dei due mondi che si sono confrontati a Bruxelles. I sovranisti, il partito degli egoismi nazionali, asserragliati nel bunker dei paesi frugali capeggiati dall’Olanda, più contro la Merkel che contro i paesi del Sud Europa, e gli europeisti, chiamati alla svolta ora o mai più dopo il disastro covid. Il sovranismo è finito in contraddizione con se stesso, perché è impossibile contestare l’Europa che distribuisce risorse piuttosto che tagliare. Il 2021, l’anno in cui i 209 miliardi previsti per l’Italia all’interno del Recovery Fund cominceranno a finanziare il piano di risorse nazionale (tutto da scrivere), assomiglia a un 2011 alla rovescia. All’epoca infatti il rigorismo e l’austerità dell’Unione a trazione tedesca (anche allora governava Angela Merkel) rovesciarono sui paesi del Sud Europa, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia le ricette della troika o i tagli lacrime e sangue che caratterizzarono la nascita del governo Monti dopo il crollo di Silvio Berlusconi. Sono stati i dieci anni in cui hanno dominato i sovranismi, nati e prosperati sulle conseguenze economiche e sociali di quella crisi. Dieci anni in cui i sistemi politici di questi paesi sono entrati in crisi: due elezioni e un referendum per la Grecia di Alexis Tsipras nel 2015, addirittura quattro elezioni in quattro anni per la Spagna e il terremoto politico permanente in Italia, dai tecnici di Monti all’uno-vale-uno di Beppe Grillo alla irresistibile ascesa e fragorosa caduta di Renzi e poi di Salvini. Per non parlare della Brexit nel Regno Unito e della crescita delle destre in tutta Europa.

Messi di fronte al baratro che stava per aprirsi sotto i loro piedi, una rivolta sociale su scala continentale provocata dalla sordità e dalla insensibilità delle sue classi dirigenti, tra marzo e aprile i leader europei hanno cambiato passo e hanno scelto di non ripetere l’errore di dieci anni prima, costato molto caro in termini di instabilità politica, perdita di competitività su scala globale, cessazione di influenza geopolitica nelle aree calde, a partire dal Mediterraneo. I Sonnambuli dell’Europa, a un soffio dal disastro, hanno deciso di svegliarsi o almeno di dare l’impressione di farlo. Di scommettere su loro stessi, come aveva suggerito di fare Mario Draghi nella sua unica uscita pubblica di questi mesi (Financial Times, 25 marzo). Di progettare da soli, senza più il sostegno dell’amministrazione americana, un piano Marshall tutto europeo. E cercare di trasformare il punto massimo di crisi, il precipitare del Pil, la chiusura dei negozi e di altri esercizi commerciali, la disoccupazione, l’impoverimento, la depressione demografica, in una opportunità straordinaria. Il cambiamento più radicale tipico di una ricostruzione post-bellica, simile a quella che portò in pochi anni intere società a passare da una civiltà in prevalenza contadina a un’economia quasi interamente industriale. Green Deal, sanità, digitalizzazione, innovazione sono oggi quello che all’epoca furono l’urbanizzazione, la motorizzazione, e anche l’istruzione di massa o il servizio sanitario obbligatorio. Passaggi epocali che non si possono affrontare senza le risorse dello Stato, senza politiche pubbliche.

Nicola Zingaretti
Nicola Zingaretti

È una storia che l’Italia conosce molto bene. L’ha vissuta durante il secondo dopoguerra, quando il Paese cambiò volto in pochi anni. C’erano, a far da motore della grande trasformazione, le forze sociali e economiche, c’erano i sindacati, c’erano i partiti di maggioranza e di opposizione che avevano una responsabilità comune, nonostante la guerra fredda e le ricadute interne del big game mondiale tra Usa e Urss. Oggi tutto questo non c’è. Il presidente del Consiglio Conte, forse per blandire un pezzo del centro-destra, anche in vista dell’elezione del prossimo presidente della Repubblica (inizio 2022), ha detto che la classe politica di maggioranza e di opposizione si sta dimostrando all’altezza della storia, ma è un bello sforzo di ottimismo. Nella maggioranza, alla vigilia del Consiglio europeo, si agitavano le voci di un futuro rimpasto dopo le elezioni regionali di settembre, con l’ingresso del segretario del Pd Nicola Zingaretti nel governo, o con una crisi provocata dall’inedita coppia Di Maio-Renzi, magari con un governo guidato dall’ex capo politico del Movimento 5 Stelle che affiderebbe il ministero degli Esteri al fondatore di Italia Viva. Un’operazione contrastata dall’asse tra Conte e il segretario del Pd, che si è vista all’opera anche durante il vertice europeo. Perché attorno a Conte c’erano solo uomini del Partito democratico: il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni, il ministro degli Affari europei Enzo Amendola, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, oltre al presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Peccato che siano in pochi nel Pd a ricordarlo. Così come è stato assegnato soltanto a Conte il merito della svolta sulla gestione della società Autostrade, dimenticando che la soluzione di un ingresso di Cpd nell’azionariato era stata costruita da Gualtieri e dalla ministra Paola De Micheli. Dell’opposizione, meglio non parlare. Inutile immaginare che da Salvini possa arrivare qualcosa di lontanamente somigliante all’interesse generale. Bandiera di cui si sono impossessati Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, ed è tutto dire.

I 209 miliardi in arrivo per l’Italia sono una occasione straordinaria, ma anche una enorme tentazione di accentramento di potere, per chi ne deciderà l’uso e la destinazione. Il piano Marshall originario fu un’opera collettiva di una classe dirigente riformista, cattolica, liberaldemocratica, motivata da interessi e valori che servivano a indicare gli obiettivi su cui sarebbero arrivati gli aiuti economici. Nell’Italia 2020 c’è il Parlamento in via di disarmo, alla vigilia di un referendum devastante, i corpi intermedi della società civile ridotti a corporazioni di particolarismi e disfatti da decenni di abbandono, una pubblica amministrazione senza orizzonte.

Resta in piedi la presidenza della Repubblica, è stato Sergo Mattarella infatti a usare nel suo messaggio post-Bruxelles le parole più ponderate: «Un risultato che contribuisce alla creazione di condizioni proficue perché l’Italia possa predisporre rapidamente un concreto ed efficace programma di interventi». Condizioni da creare, perché ancora non ci sono. Un programma da predisporre, perché ancora non c’è. Il Piano per le Riforme non può essere una questione soltanto del presidente del Consiglio, per quanto bravo, fortunato, omaggiato e adulato e circondato da una fitta schiera di cagnacci da guardia (che abbaiano contro chi esercita la critica, però). Un Piano per le Riforme è qualcosa di diverso dell’ennesima task force ministeriale o della riedizione delle cabine di regia, merce di scambio politico e red carpet per il premier narcisista di turno. Un Piano per le Riforme ha bisogno di riformisti che sappiano scriverlo e poi realizzarlo. E per fare questo non basta neppure il Recovery Fund. Forse servirà davvero rimandare a Next Generation.

L’ESPRESSO

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