Cappato e Welby assolti. Così i giudici ampliano il diritto al suicidio assistito

NICCOLO’ ZANCAN

«Il fatto non costituisce reato». Non è stato «aiuto al suicidio». È stato qualcos’altro, che in Italia ancora non trova un nome e una via legale. Ma il gesto compiuto da Mina Welby e Marco Cappato, che il 13 luglio 2017 accompagnarono Davide Trentini, 53 anni, malato di Sla, a morire in una clinica Svizzera, è stato ritenuto degno di assoluzione. Così come era già successo per Dj Fabo, ieri è arrivata un’altra sentenza storica.

Nell’aula della Corte d’Assise di Massa Carrara, il pm Marco Mandi aveva chiesto una condanna a 3 anni e 4 mesi. Ma l’aveva fatto, codice alla mano, pronunciando queste parole: «Chiedo la condanna con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito. Colpevoli sì, ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di negare». Prima che la corte si ritirasse in camera di consiglio, Marco Cappato aveva rilasciato una dichiarazione spontanea: «Abbiamo fornito un aiuto innegabile in assenza di qualunque parametro di legge. Abbiamo aiutato Trentini in base ad un dovere morale e lo rifarei esattamente nello stesso modo. Alla corte vorrei ricordare che, dalla morte di dj Fabo e di Trentini, altre decine di persone si sono recate in Svizzera per il suicidio assistito e le autorità italiane ne sono state informate da quelle elvetiche. Nessun procedimento penale, però, si è aperto. Quelle persone non hanno avuto bisogno di noi, perché avevano i soldi per farlo. Ma questo non può essere il discrimine tra malati che soffrono». Non può esserci differenza fra chi si può permettere l’ultima scelta e chi no, questo sembra confermare la sentenza di ieri. Anche Mina Welby, entrando nel Palazzo di giustizia di Massa Carrara, aveva usato parole ferme.

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