Disagio e disuguaglianze, le nostre periferie rimosse
E dire che se c’è una cosa che l’epidemia di Covid-19 sta mettendo in luce anche nella fase attuale è proprio la crucialità della dimensione urbana e spaziale (si pensi all’obbligo del «distanziamento»!). Tanto dello spazio privato che di quello pubblico, tanto dello spazio abitativo quanto di quello urbano in generale. Ma non solo. L’andamento del contagio — particolarmente virulento nelle grandi metropoli come Wuhan, Milano o New York , con la conseguente manifestazione proprio in queste aree dei maggiori problemi — è stato letto da più d’uno, insieme all’evidente ritorno in auge della dimensione nazional-statale, come la spia di una sorta di storica inversione di tendenza. E cioè da un’epoca in cui il futuro appariva essere tutto affidato alla crescita delle grandi megalopoli mondiali, in cui sembrava che lì ormai battesse il cuore dello sviluppo, a un’epoca, invece, nella quale potrebbe affermarsi la tendenza a una spazialità assai meno dilatata e dirompente. Non vediamo forse già oggi che la diffusione del telelavoro e dell’e-commerce sollecitata dalla pandemia è sul punto di acquisire in molti settori un carattere stabile, con l’effetto di mettere in crisi l’esistenza dei grandi agglomerati di uffici, dei grandi centri e delle grandi arterie commerciali, tipici del recente avvenirismo metropolitano?
Ma con ancora maggiore urgenza la pandemia ripropone il tema delle periferie. Infatti, da dove pensiamo mai che provengano in larga maggioranza le turbe di giovani che dappertutto stanno agitando le notti italiane di questa estate? Da dove, se non dalle invivibili periferie, dagli sperduti quartieri dormitori, dalle strade male illuminate che finiscono nel nulla? Ormai è diventato un rito. Al calar d’ogni sera, specie nel fine settimana, quei giovani si rovesciano nelle piazze, nei centri storici delle città, e sembrano farlo come posseduti da un desiderio di rivalsa che oggi si manifesta nella volontà d’infrangere tutti gli obblighi e le precauzioni sanitarie, di farsi beffa in tal modo di ogni regola di civile convivenza. Li muove, si direbbe, quasi il torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società «per bene» insieme ai posti che essa abita. Di distruggere quanto non possono avere.
Da tempo un gran numero di periferie italiane sono diventate il luogo dove si addensa il potenziale di un inedito conflitto sociale. Che non assomiglia più in nulla alla vecchia lotta di classe con al centro il protagonismo degli operai — ormai dappertutto ultraminoritari anche nei quartieri che un tempo furono i loro — ma ha la sua avanguardia nei «giovani» (oggi fino a 35-40 anni) appartenenti a una vasta zona sociale che va dal sotto proletariato alla piccola borghesia. Un conflitto sociale sui generis che lungi dall’esprimersi alla vecchia maniera negli scioperi, nei cortei o nei grandi comizi politici, si manifesta nell’occupazione selvaggia degli spazi pubblici, nel raid violento, nel vandalismo ai danni delle scuole, della segnaletica stradale o dei mezzi di trasporto. Un conflitto il quale, essendogli estranea qualunque dimensione organizzata e di massa si riconosce piuttosto in quella del piccolo gruppo guidato da un’erratica spontaneità, e non possedendo alcun retroterra, alcun progetto, alcuna strategia rivendicativa non può che esprimersi in azioni puramente distruttive.
Dietro tale conflitto c’è la drammatica condizione di disagio, di diseguaglianza di standard socio-culturali, che colpisce chi vive nelle periferie. Una diseguaglianza che produce non solo un senso di sconforto e di deprivazione nel vedere i propri giorni trascorrere in un ambiente dominato dallo squallore e con i servizi più scadenti, dove non esiste un parco, un asilo o una fontana, lontano da ogni evento, privo di occasioni sociali di qualche valore, dove a volte la vita sembra quasi ridursi a semplice sopravvivenza. Ma che soprattutto si traduce nella sensazione di essere abbandonati, di essere esclusi dal circuito della cittadinanza ad opera di un potere estraneo ed ostile. Contro il quale, dunque, non resta che l’arma della rivolta, del voto dato in odio alla casta, ai migranti, ai rom, a tutti, ovvero l’arma della rappresaglia, quella delle spedizioni punitive notturne senza mascherine e sputando sui citofoni dei fortunati che abitano in centro.
CORRIERE.IT
Pages: 1 2