Manine e trappoline
Alla fine della baldoria, di questa intensa due giorni parlamentare, resta nell’aria un senso di “sospensione” che riguarda il Mes, ma non solo: programmatica, progettuale, politica di un governo che, fuori dalla riproposizione di un anacronistico stato di necessità, e dall’annesso ottimismo su quanto ha funzionato il “modello italiano”, fatica a collocarsi nella fase nuova che, oggettivamente si è aperta nel paese, con le sue urgenti domande di ricostruzione. Con adamantina schiettezza e con franca severità, prima ancora dell’opposizione con le sue roboanti fanfare, lo ha sottolineato, come si dice in questi casi, un autorevole esponente del partito democratico, il senatore Zanda: “Dopo aver ascoltato tutto l’ascoltabile – queste le sue parole – il presidente Conte ci parli di un progetto complessivo, all’altezza della crisi, non basta più un rapporto dettagliato sulle cose fatte e su quelle che si potrebbero fare”.
Ecco, è passata solo una settimana dal trionfalismo sui successi del recovery fund e dall’euforia, anch’essa celebrata in Aula, come se la partita europea fosse terminata, una volta per tutte, e i soldi già ottenuti, allocati, spesi. Solo sette giorni dopo, ascoltato l’ascoltabile (copyright Luigi Zanda) su propositi, intenzioni, commissioni, resta, come unico punto fermo, uno “stato di emergenza” pret a porter, fondato più che su evidenze scientifiche, sulla rimozione della situazione concreta – a partire dal flop della app immuni e dello screening si massa – e su un compromesso tutto politico. Qualcuno, come Italia Viva, lo voleva più corto, altri più lungo, alla fine si è optato per una via di mezzo, fino a metà ottobre, col paradosso di un’emergenza sanitaria piena (così è stata descritta a parole) da fronteggiare con una legislazione emergenziale a metà nei tempi e anche negli strumenti, visto che sono stati inseriti molti paletti che limitano, e non poco, l’utilizzo dei dpcm. Insomma, il trionfo del piccolo cabotaggio, “questo a me, questo a te”, con la stessa logica che ha portato all’accordo sulle commissioni parlamentari dopo tre settimane di tira e molla, 70 ore di riunioni, infinite discussioni tra partiti, componenti, appetiti e ambizioni dei singoli.
Proprio la retorica emergenziale, però acuisce la contraddizione tra l’urgenza del problema e la lentezza della risposta. Alla Camera, oggi, il presidente del Consiglio ha pressoché ignorato, proprio mentre il governo è costretto ad inviare i militari in Sicilia, il tema dell’immigrazione, anche questa è emergenza, pur avendo ricevuto pubbliche esortazioni a una risposta “adeguata”, da pezzi della sua maggioranza. Al Senato, il ministro dell’Economia, nel chiedere un nuovo, rilevante, scostamento di bilancio – e con questo siamo a quota cento miliardi di debito – ha riproposto, come visione per la ricostruzione, quel piano nazionale di riforme, già approvato, che è un elenco di titoli tutti da sviluppare e tradurre in progetti concreti. Un intervento tutto al futuro – nel senso di “vedremo”, “ci confronteremo”, “approfondiremo”- che, nei fatti sposta in avanti il tempo della risposta. Il punto non è numerico, oramai si è capito: i numeri ci sono e più le votazioni sono delicate più aumentano perché si registra il picco dello spirito di conservazione dei parlamentari. Il punto è sempre politico, eternamente uguale a se stesso ai limiti del déjà vu.
L’HUFFPOST
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