L’inutile duello Nord-Sud
Se però le classi dirigenti europee riconoscono implicitamente il valore del mercato italiano di consumo non è affatto detto che ci vogliano riconoscere il rango industriale di cui comunque godevamo nel pre-Covid. Come mi è già capitato di scrivere, il secondo posto per valore aggiunto nella manifattura europea — nostra prerogativa — è diventato un trofeo contendibile. L’Italia manifatturiera conta in Europa in virtù del suo capitalismo leggero della moda, del design e del cibo ma soprattutto perché la sua industria meccanica resta di assoluto valore. Il limite è che buona parte di questo know how è organizzato in sistemi di fornitura e quindi è estremamente sensibile alla concorrenza intra moenia, dove le mura sono quelle della Ue. Non è un mistero, ad esempio, che stia crescendo in quell’area che comprende Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, un competitor diretto che si avvantaggia ancora di un differenziale di costo del lavoro e che viene comunque guardato con una certa benevolenza dalle élite renane. Ora è vero che i nostri salari sono rimasti fermi da tempo, al punto che l’economista Fedele De Novellis in un suo paper avanza l’ipotesi che proprio la stagnazione delle paghe sia stata uno degli atout della ripresa italiana 2015-18, ma le differenze retributive che ancora esistono vanno a sommarsi ad alcuni svantaggi di sistema (burocrazia, tempi della giustizia) che la Mitteleuropa non ha.
È in questo contesto che va collocato, dunque, il dibattito sulle nostre questioni, settentrionale o meridionale. E se alle imprese del Nord va chiesto di credere nella loro missione produttiva, di salire nella qualità della propria offerta (e i temi sono trasformazione 4.0, dialogo con le università per il trasferimento tecnologico, capacità di vendere non solo macchine ma servizi), al Sud va chiesto di identificare la sua proposta di specializzazione e renderla attrattiva. La qualità del manifacturing è alta in molte fabbriche del Meridione, basta pensare a Pomigliano, agli insediamenti aeronautici e al polo farmaceutico di Frosinone-Latina, ergo si può tranquillamente sostenere che la cultura industriale avanzata può trovare terreno fertile non solo nel triangolo industriale del Nord (e anzi, proprio per questo motivo, si può pensare di rafforzare i sistemi locali di fornitura delle grandi aziende, come ha proposto Patrizio Bianchi sul Messaggero). Si tratta però di chiarire che tipo di proposta di sistema si avanza in questa fase di ridisegno della globalizzazione, che misure si vogliono perseguire per far risalire la produttività — grande tallone d’Achille del Sud — e poi, anche, quali strumenti di vantaggio fiscale si vogliono utilizzare di volta in volta. Gli incentivi però non possono surrogare l’assenza di proposta, pena restare inutilizzati. E allora varrebbe la pena confrontarsi sul piano della concretezza delle traiettorie di sviluppo piuttosto che creare un intergruppo parlamentare di lobby sudista, come sembra stia avvenendo. Questa riflessione può aprire nuove ipotesi di specializzazione e attrattività territoriale (il biologico nell’ambito della filiera agro-alimentare, i servizi medicali di qualità per la generazione dei baby boomers), ma in prima battuta dovrebbe implementare, ripescando dal piano Colao, una vera operazione di reshoring. Perché se vogliamo riportare indietro lavorazioni intermedie dall’Asia nel tessile, nella farmaceutica o nella produzione di batterie elettriche, bisogna attrezzarsi per tempo. Altrimenti questi ritorni favoriranno altre aree (Turchia o ancora Polonia) e noi ci consumeremo nell’ennesimo duello da talk show tra settentrionalisti e meridionalisti.
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