Torna la paura dell’inflazione: l’onda starebbe per partire dalla Cina

E cosa alimenta questo timore? Ciò che viene mostrato da questo secondo grafico, il quale sembra suggerire come, silenziosamente, la Cina abbia lanciato il proprio Qe.

Bloomberg

La differenza storica fra le strategie di stimolo statunitense e cinese sta infatti nell’operatività: la FED acquista asset dal mercato secondario, mentre la PBOC interviene attraverso tagli dei requisiti di riserva bancari che liberino implicitamente liquidità nel sistema. Il grafico sembra però mostrare un recentissimo quanto drastico mutamento della dinamica: stando a dati tracciati dalla China Central Depository & Clearing Co. nel mese di luglio in Cina si è sostanziato un aumento degli acquisti di bond sovrani riconducibile alla voce other investors, la quale include Banche centrali e clearing houses. In totale si tratta di 196,5 miliardi di yuan di controvalore in più, i quali hanno portato il totale a 1,78 trilioni di yuan, circa 256 miliardi di dollari. In un solo mese. Da quando Bloomberg traccia la serie storica riguardante gli acquisti di bond sovrani, ovvero dall’autunno 2018, questo rappresenta l’incremento record. Chi può aver mosso un controvalore simile? Certamente, non una banca commerciale o un fondo. Quasi certamente, una Banca centrale. E chi potrebbe aver avuto interesse, in un momento geopolitico come questo, ad acquistare titoli di Stato cinesi per quell’ammontare? Sicuramente non gli Usa. Né certo la Bce. Ecco, quindi, che i sospetti vanno a concentrarsi sull’ipotesi di acquisti diretti di asset da parte della Pboc cinese.

Una mossa che, se confermata, rappresenterebbe uno spartiacque per gli interi assetti finanziari globali, a meno di una strategia di brevissimo termine, quasi un blitz, che comporti acquisto di bond con una finalità meramente anti-Covid per reinvestire in progetti con un return immediato.

Non la pensa così, però, Michael Every di Rabobank, il quale fa notare come “il deficit fiscale consolidato cinese era già a doppia cifra prima della crisi da coronavirus, stando a dati dell’FMI: dove pensate che possa essere oggi, realisticamente? Quindi, appare ridicolo pensare che la PBOC non stia operando in backstopping, esattamente come Fed e Bce, perché lo sta ovviamente facendo”.

Ed ecco che la dinamica cambia.

Stando a calcoli di Bank of America, infatti, dalla crisi Lehman a oggi le Banche centrali del cosiddetto G-6, escludendo quindi proprio la Pboc cinese, hanno immesso qualcosa come 24 trilioni di dollari nel sistema finanziario, un quarto del Pil mondiale. E prezzando nel novero generale anche le varie forme di stimolo messe in campo dalla Banca centrale di Pechino, intese quasi unicamente come interventi mirati sui requisiti di riserva, la banca d’affari statunitense si attende che entro la fine del 2021 quella cifra totale avrà raggiunto quota 28 trilioni di dollari. Se però Pechino, giocoforza, dovrà operare esattamente come Fed, Bank of Japan e Bce, acquistando quindi direttamente assets, dove andrà a finire quella cifra? E, soprattutto, come si potrà uscire da un simile labirinto di monetizzazione strutturale del debito? Un loop infernale.

E per gli Usa, intenti all’ingresso nel vivo della campagna per le presidenziali, un guaio in più. Certificato da questi due grafici. Il primo, infatti, mostra la correlazione fra impulso creditizio cinese e Pmi manifatturiero globale: una dinamica fotocopia di quella relativa ai tassi Usa, poiché se i precedenti storici non tradiscono, quanto sta muovendosi sottotraccia dovrebbe portare a un netto rimbalzo della produttività mondiale.

Macrobond/Nordea

Una buona notizia, in condizioni normali. Ma non nel new normal delle economie dipendenti da sostegno monetario strutturale: se rimbalza la produttività, se la Cina innesca un effetto di reflazione diretto sull’economia Usa e con esso un aumento dei prezzi, come si potrà giustificare ancora a lungo (o, quantomeno, in base ai desiderata open-ended di Wall Street) una politica di tassi a zero e stimolo espansionistico da parte della Fed? Tanto più che, in base a quelle metriche, i tassi Usa sul decennale sono già oggi in area 1,50%, più del doppio di quelli reali.

Ed ecco che il secondo grafico ci mostra come qualcosa stia già filtrando nell’economia statunitense. Oltretutto, attraverso un suo proxy storico come il prezzo del lumber, il legname da costruzione. Fino ad aprile, infatti, i futures di quella commodity direttamente legata al comparto fondamentale dell’immobiliare erano rimasti piatti: poi, un’esplosione arrivata fino al +200%.

Bloomberg

“Oggi come oggi, paghiamo tre volte tanto il prezzo di pochi mesi fa“, ammette con Bloomberg il proprietario della Firehouse Builders, Ron Woods. Un boom delle costruzioni, quindi un segnale di ritrovata salute dell’economia? No, il grafico parla chiaro: non è domanda, bensì semplicemente carenza di offerta legata al fallout del blocco delle produzione durante il lockdown, stante il livello di spesa per costruzioni in continuo calo (linea rossa).

Insomma, proprio nel momento in cui il Census Bureau registrava una timida accelerazione dei permessi di costruzione, ecco che la prospettiva pare quella di un aumento dei costi da qui a poche settimane: per l’intera filiera, da chi acquista per costruire al compratore finale. Tradotto, inflazione. Il tutto, innescato da una dinamica macro che ancora non aveva minimamente patito le mosse monetarie sotterranee di Pechino.

Ma non basta. Perché a fronte di un balzo da record assoluto del grado di fiducia dei costruttori immobiliari appena registrato, stante la lettura di 78 punti del Wells Fargo Housing Market Index, proprio le dinamiche del prezzo del legname muovono ulteriori dubbi negli analisti, senza scordare il drastico irrigidimento degli standard di prestito da parte delle banche Usa, anche e soprattutto in fatto di mutui immobiliari.

Sarà per questo che Donald Trump sembra aver ingaggiato una nuova crociata contro la Cina, annunciando ulteriori restrizioni in ramo corporate per aziende come Alibaba? Probabile. Ma anche per questo:

Bank of America

visto che nell’ultima classifica Fortune 500 le aziende cinesi hanno sopravanzato per la prima volta quelle americane, portando il computo totale a 124 contro 121. Un brutto colpo simbolico per la retorica presidenziale.

Come convincere Pechino a un ritorno alla più chirurgica e gestibile logica del taglio dei requisiti di riserva, stante il comodo alibi dell’esportazione cinese di deflazione da super-produzione che per anni ha garantito campo libero alle politiche espansive della Fed e che ora, invece, il crollo del Pil da Covid ha tramutato in rischio di inflazione? I tassi Usa parleranno molto nelle prossime settimane. E come mostra l’ultimo grafico, gli hedge fund sembrano aver prezzato in anticipato cosa potranno dire, visto che le posizioni nette ribassiste sullo Standard&Poor’s 500 hanno appena toccato il massimo da due mesi.

Bloomberg

BUSINESS INSIDER

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