Romiti e quell’errore che non si perdonò mai: il «No» a Wojtyla non ancora Papa

di Ferruccio de Bortoli

Romiti e quell'errore che non si perdonò mai: il «No» a Wojtyla non ancora Papa

Cesare Romiti ha segnato la storia del Paese più volte. Vi ha impresso un suo sigillo personale. Lo ha fatto con la durezza del manager determinato, coraggioso, spregiudicato se necessario, ma anche con il tratto gentile di un uomo aperto, curioso, che non aveva mai accettato l’idea di poter invecchiare. Se n’è andato a 97 anni. Indro Montanelli, che fu suo amico, diceva che si comincia a morire dai piedi o dalla testa. «Costretto, preferirei la prima ipotesi» commentava il celebre giornalista alzando lo sguardo al cielo. Montanelli scrisse persino, nell’ultima notte, il suo necrologio. Romiti negli ultimi giorni era come una candela che si spegneva, dilatandosi. Era come se fosse tornato bambino, chiedendo della mamma e del papà. Lui che aveva fatto della sua imponenza fisica quasi la rappresentazione teatrale della managerialità, il marchio di una risolutezza rocciosa, non si piegava all’idea che le gambe non potessero più sorreggerlo, che il corpo non rispondesse più ai suoi comandi. «Ormai, dovrebbe andare in giro appoggiandosi sempre a un bastone — diceva già qualche anno fa il figlio Maurizio — ma non lo accetterà mai, sai com’è fatto». Cesare, il «Dottore» negli anni della Fiat, aveva una presenza statuaria che imprimeva di per sé soggezione. Lui era quello. Forte, duro. Ben piantato per terra. Cesare romiti, 1923-2020. L’intervista dall’archivio / 1

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