Le scelte che restano da fare in un Paese ancora sospeso

Soprattutto non sembra ancora avere una visione — o se ce l’ha se la tiene ben nascosta — di ciò che l’Italia dovrà diventare, dopo la catastrofe economica e sociale provocata dalla pandemia, tunnel sotto lo Stretto di Messina a parte. Il ricorso al prestito Mes per rifare il nostro sistema sanitario è oggetto di una estenuante trattativa, viene scambiato sul mercato della politica, chissà, si finirà col barattarlo con la ricandidatura della Raggi o con una desistenza alle regionali. I progetti per utilizzare i finanziamenti ingentissimi del Recovery Fund sono forse nella mente di qualche tecnico rimasto da solo a lavorare nel Palazzo desertificato dalla settimana ancora ferragostana, dedicata dai politici alle photo opportunity in riva al mare. Ma non si vede ancora neanche un abbozzo di quel gran dibattito nazionale che dovrebbe portarci a scegliere come utilizzare somme paragonabili solo al piano Marshall per la ricostruzione post-bellica. Quella stagione restò legata ai nomi di De Gasperi ed Einaudi, produsse la siderurgia e la chimica italiane, diede vita all’Eni di Mattei e alla Cassa del Mezzogiorno di Menichella e Saraceno. Con tutto il dovuto rispetto, chi sono oggi e che cosa propongono le donne e gli uomini candidati a eguagliarne i risultati? Allora l’Italia mise fine alla sua «carriera di Paese sottosviluppato», cominciata nel Seicento. Oggi un già troppo lungo declino può trasformarsi in tracollo, senza un analogo scatto di reni. E per farlo abbiamo solo una finestra di tempo limitata, quella in cui anche gli altri «grandi» si rialzeranno e ricominceranno a correre: pochi mesi.

Sappiamo che il governo ha un difetto di fabbricazione: non è figlio delle urne ma della volontà di non tornarci. Sappiamo anche che nei ministeri non ci sono sempre i migliori, anzi. Tanto più necessario sarebbe darsi una regolata, un ritmo, un programma. L’Italia riapre davvero tra due settimane, e troppe cose sono ancora sospese. Dalla scuola alla vendemmia, non sappiamo come andrà a finire. Il Paese ha bisogno di avvertire fermezza di intenti, unità sulla direzione di marcia, lo sprone e l’autorevolezza di una guida che non è — non può mai essere — un uomo solo al comando. I libri di storia racconteranno questi mesi. Per le nostre classi dirigenti è arrivato il momento della verità.

CORRIERE.IT

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