Mario Draghi, l’inascoltato

Se tutti, o quasi tutti, sono d’accordo con Draghi, perché non accade ciò che Draghi suggerisce? Questa domanda sta piantata nel cuore del Paese, tra il consenso generale all’appello dell’ex presidente della Bce e una transizione fin qui dominata dalla confusione nell’azione di governo e da un’incertezza che attraversa, tutto intero, il quadro politico. Perché è vero che la maggior parte della classe dirigente nazionale, anche quella che per motivi di bandiera non può dichiararlo apertamente, riconosce che i sussidi servono a sopravvivere, non a ripartire; che c’è debito buono, finalizzato a investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture e nella ricerca, e debito cattivo e improduttivo, simbolo del furto generazionale dei padri sui figli; che s’impone un riformismo fondato su regole di responsabilità; che l’adesione all’Europa e la difesa del multilateralismo sono per l’Italia un obiettivo irrinunciabile; che, da ultimo, l’incertezza dell’opinione pubblica e dei mercati si dissolve con politiche credibili nel medio-lungo periodo, segnate dalla coerenza dell’azione di governo con il mandato e con i principi che lo ispirano.

Ma tra il pensare, il dire e il fare c’è il dramma esistenziale della politica italiana. La quale non riesce a dire ciò che pensa e, perciò, non riesce a fare ciò che dice. È una malattia che contagia, sia pure in misura diversa, tutti i partiti e che suscita il preoccupato interesse di analisti e intellettuali. C’è chi, come, Ernesto Galli della Loggia, la diagnostica come una deriva del trasformismo, diventato il “vero principio costitutivo del sistema politico italiano” e incarnato da un premier privo, e fiero per questo, “di qualunque appartenenza politica”. C’è chi, come Sabino Cassese, la chiama sindrome della politica corsara, priva di radicamento storico e sociale, schiava del consenso e, perciò, adusa a promettere ciò che non può distribuire e a distribuire ciò che sottrae, con il debito pubblico, alle generazioni future. C’è ancora chi, come Marco Bentivogli, la racconta come una degenerazione del riformismo, che baratta il realismo e gli ideali con le velleità rivoluzionarie, e finisce per consegnarsi al ricatto delle corporazioni e dei loro particolarismi.

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