L’arte come felicità e fantasia e non come critica militante
Non si spegne nella memoria il sorriso di Philippe Daverio. Per lui l’arte era una festa, una crescita della felicità. Soltanto in questi termini si può capire fino in fondo la differenza tra lui e un critico d’arte, peggio ancora se militante.
E in quattro tempi della sua vita egli mostrò sempre la stessa vitalità. Poco più giovane di lui, lo incontrai già pieno di vita e di entusiasmo nel 1975, quando Milano era imperdibile non solo per i suoi musei ma per le gallerie: il Milione , lo Studio Marconi, Lorenzelli , Farsetti, lo storico Cavallino di Carlo Cardazzo, Gianferrari, ognuna in qualche modo galleria di tradizione; ma solo alla galleria Philippe Daverio in via Montenapoleone 6 si respirava un’aria nuova, un’aria libera, e non per minore impegno nella storia (da quell’esperienza uscirono i cataloghi generali, che l’università e le sovrintendenze non erano in grado di garantire, su Giorgio de Chirico e su Gino Severini). Ma ti poteva accadere la sorpresa di vedere i vetri di Guido Balsamo Stella o i dipinti di Gianfranco Ferroni.
La garanzia di Daverio non era notarile ma di fantasia, di autorevolezza, di invenzione, di apertura, di strade nuove. E, nel 1978, quando arrivò a Venezia, il grande editore Giulio Einaudi che avevo conosciuto a casa di Maria Teresa Rubin De Cervin Albrizzi, rimase incuriosito del mio febbrile desiderio di conoscenza e dalla mia curiosità. Appreso che ero nato a Ferrara, mi chiese di accompagnarlo alla grande mostra di antiquariato che si teneva allora in Palazzo Grassi prima che fosse il santuario dell’arte che, dalla Fiat a Pinault, è poi diventato, per vedere un quadro che lo incuriosiva, di un grande e allora misconosciuto pittore: Gaetano Previati.
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