L’arte come felicità e fantasia e non come critica militante
Erano le Fumatrici d’oppio, capolavoro simbolista. Ne rimase folgorato e glielo raccomandai. Il mercante che lo vendeva era Philippe Daverio, giovanissimo. La cifra, alta per un pittore minore, all’epoca, 37 milioni di lire. Einaudi non batté ciglio, il dipinto fu suo. A distanza di tanti anni l’affare lo fece (o l’avrebbe fatto se non fosse stato costretto a venderlo negli anni della crisi della sua casa editrice) Einaudi. Ho sempre ricordato quest’episodio come testimonianza della qualità e della genialità di Daverio, che incrociai su quadri notevoli anche in altri anni con il gesto rapace di chi non si lascia sfuggire i capolavori. Poi quell’esperienza finì e, nel 1993, lo ritrovai assessore alla cultura a Milano nella giunta leghista di Formentini. Soltanto lui poteva avere il distacco di mettersi con gli allora rappresentanti della barbarie, che non ebbero problema a lasciare tutto il campo a lui. E così il Comune di Milano, anche con i soldi della Regione, acquistò i dipinti più belli: un Antonello e due Canaletto, oltre le tante mostre. E a tale punto le nostre strade si trovavano a convergere poiché, dieci anni dopo, quello stesso incarico toccò a me, e fu forse l’esperienza più intensa della mia vita pubblica. D’altra parte, dell’arte avevamo un’analoga considerazione come fonte primaria di felicità dei sensi, ma anche con diverse interpretazioni. Io capii prima di lui la potenza della televisione e iniziai a raccontare l’arte con entusiasmo e passione. Era uno strumento fondamentale per caricare immagini dal formato non diverso da quello dei quadri, e commentarle; ma, nei due stili di comunicazione, sornione il suo, aggressivo il mio, ci consentiva di far diventare l’arte democratica e popolare, e di parlare a tutti, di trasmettere felicità.
Daverio aveva capito meglio di altri che l’arte è il paradiso dell’innocenza e l’inferno dell’intelligenza. Philippe è stato l’Isaac Bashevis Singer dell’arte occidentale: un racconto meraviglioso. Da una parte c’era la critica dei Bonito Oliva, dei Celant, una critica militante agguerrita, biennalesca, io e lui eravamo sempre sulla frontiera, per così dire, popolare di racconto dell’arte e di difesa di valori stabili. Per cui potremmo immaginare una storia dell’arte italiana negli anni Novanta fatta a quattro mani pur non avendo mai scritto libri insieme. Ci siamo sempre trovati e abbiamo cercato di allargare la platea dell’arte attraverso la televisione e libri nazional-popolari. Dunque, chiarezza del testo, comunicazione televisiva, racconto Insomma, riuscire a fare innamorare dell’arte.
Ecco, Daverio aveva passione per l’arte e comunicava amore per l’arte. Sostanzialmente, la sua presenza è stata molto precisa nella situazione del secolo in cui siamo; abbiamo chiuso il secolo che era stato aperto da Adolfo Venturi con la sua grande Storia dell’arte facendo una storia dell’arte per l’umanità vera. Apri un libro di Philippe Daverio e leggi cose che capisci e che raccontano l’epopea dell’arte italiana ed europea. Da questo punto di vista è stato uno storico dell’arte fondamentale e popolare.
Le occasioni d’incontro sono state centinaia. Lui aveva questa apparenza di personaggio alla Hitchcock che occhieggia dai suoi film. Daverio era un tipo. Certo, Celant aveva una divisa nera mentre Philippe Daverio aveva una varia policromia: girava con abiti originali, il panciotto, la farfalla, quasi la bombetta. In questo era molto più pittoresco di me, e ci siamo trovati a fare conversazione in pubblico in diverse occasioni, in cui lui raccontava cose sempre amene. Aveva una dimensione conviviale della storia dell’arte. Lo nominai allegramente bibliotecario di Salemi, quando divenni sindaco, quindi risaliamo, dopo l’esperienza milanese, al 2008. Feci assessori Oliviero Toscani, Peter Glidewell e il principe Tortorici. Una comunità di amici. Così venne a Salemi. Era innamorato della Sicilia. Fino al momento in cui fece la cosa più antagonista della sua vita: ribellarsi al popolo siciliano durante i festeggiamenti di Santa Rosalia.
Capitò qualcosa con la macchina della Santa, e Philippe fu insultato dai palermitani. E reagì con vigore. Naturalmente concepì una potente antipatia nei confronti della Sicilia, che ha caratterizzato i suoi ultimi anni. Per cui, dopo essere stato docente a Palermo e avere lavorato con le istituzioni, si trovò a entrare in polemica molto forte e smise di venire in Sicilia. Questo è il momento più drammatico della sua vita, in cui mostra un volto nuovo, una dimensione diversa da quella conviviale, ironica e divertita. E questo fu sicuramente il suo tratto più riconoscibile. Quindi diventando poi un personaggio, con le caratteristiche dei suoi abiti e dei suoi comportamenti, ha come recitato l’arte, portandola in un teatro per tutti. Con lui era come vedere lo spettacolo dell’arte.
IL GIORNALE
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