Salvini non sta Serenissimo

″Zaia ha avuto una grande abilità nel portare avanti e amplificare gli slogan della Liga veneta”. A parlare è Franco Rocchetta, storico segretario della Liga veneta, due legislature in Parlamento sotto il simbolo di Alberto da Giussano, qualche mese da sottosegretario agli Esteri prima di sbattere la porta nel 1994, come lui stesso rivendica. Le sue parole sono un affresco nel quale si scorgono nitidi i contorni di una battaglia decennale di cui poco o nulla si sa al di fuori del mondo dei leghisti d’antan: “Ho lasciato la Lega pur essendo presidente federale perché fino al luglio del ’94, nonostante le fughe in avanti di tipo fascista di Umberto Bossi, elezioni e congressi erano democratici. Nel ‘94 ci fu un vero e proprio golpe, lo scriva, questo termine non lo uso a sproposito”. Da lì in poi, a sentire Rocchetta, è stato un disastro: “Una continua degenerazione politica e morale del Carroccio. La differenza tra Salvini e Bossi è che Bossi almeno tuonava contro i fascisti, Salvini non ritiene sia nemmeno necessario”. C’è una fierezza e una rivendicazione di autonomia che poco c’entra con il partito del “Prima gli italiani”.

Feltrin prova a spiegarla così: “Da quelle parti tutte le forze politiche sono anzitutto venete, e poi italiane. E’ dal 1860 che va così, un’esperienza che il periodo liberale e fascista avevano sopito, e poi la Dc annacquato”. Entrambi, lo studioso e il militante, ricorrono all’esempio del referendum consultivo sull’Autonomia: “La partecipazione è un dato significativo – spiega il professore – in Veneto è stata il doppio rispetto a quella della Lombardia, sia pur con una popolazione minore”. Rocchetta ne fa una questione storica: “La Liga aveva un’organizzazione capillare che la Lega si sognava, e che andava anche oltre i confini della Regione, si estendeva in Friuli a Brescia e a Bergamo. In quel referendum non è un caso che Brescia e Bergamo abbiano dato la stessa risposta del Veneto, mentre nel resto della Lombardia i risultati sono stati diversi”.

Feltrin spiega che “c’è sempre stata tensione e antagonismo tra la Lega lombarda e la Liga veneta, sono screzi che vanno avanti da 40 anni”. Prosegue: “Per varie ragioni negli ultimi anni l’autonomismo regionale che sembrava affievolito ha ripreso forza, ma negli anni ’90 hanno pesato le teste, e i lombardi, che sono molti di più, hanno preso il controllo del partito per non mollarlo più”.

Quei lombardi che per Rocchetta hanno trasformato le istanze iniziali in un partito “con una struttura burocratica, statalista, un brutto riflesso del clientelismo della Dc”. E in questo “Salvini è in piena continuità con chi lo ha preceduto. Guardate la candidatura del Tribunale dei brevetti per Milano. I brevetti nascono a Venezia, era quella la città al quale doveva andare”.

La storia (“Il Veneto ha 4mila anni”, dice Rocchetta, pescando storie dall’Impero romano e dalla confederazione veneto-olandese del 1600) e le incrostazioni degli ultimi lustri di politica hanno dato vita a un incredibile sottobosco che raramente vede il sole, se non per affiorare quando quel pezzo di cultura regionale domata sapientemente da Zaia rischia di straripare in percentuali oceaniche. “Zaia ha una strategia politica ben precisa – spiega Feltrin – ragiona con un’ottica più tradizionale rispetto ai grandi vecchi della Liga, ma anche molto più federale di Salvini”. Al punto che anche Rocchetta, che ne denuncia “l’infiltrazione da parte di vecchi democristiani”, gli concede una sorta di onore delle armi: “Non ho nulla contro Zaia, si è costruito un’immagine così bene da ottenere il sostegno della Liga”. Si pesca nella memoria storica: “E’ sempre stato bravo a veicolare la sua immagine. Quando non lo conosceva nessuno, nella prima metà degli anni ’90 faceva scrivere in giro per Treviso e provincia murales bianchi alti due metri con su scritto ‘Bravo Zaia’ e ‘Grazie Zaia’. E’ sempre stato un metro avanti, è entrato nella testa della gente”.

La domanda ovvia è: può l’unanimismo nei confronti del governatore, fenomeno nazionale solo perché lo è nei confini della sua Regione, trasformarsi in insidia per Salvini? Per Feltrin “più se ne parla e più va contro Zaia”. Usa un’immagine che è una sintesi formidabile di cosa sia la Lega oggi: “Non si mette in discussione il re in carica”. Poi allarga il campo: “Ci vogliono condizioni particolari affinché il Veneto possa accedere a una leadership nazionale. In primo luogo devono essere d’accordo i lombardi, e in secondo un vasto consenso sul piano nazionale”. Rocchetta lo definisce il “fulcro di un ventennio di degenerazione della Liga voluta da Milano”. Ma si scorgono parole di considerazione che renderebbero il presidente attraente pure per un duro e puro della prima ora come lui: “Zaia può insidiare Salvini, ma lui non si sopravvaluta. E’ riuscito con immensa abilità a cavalcare il venetismo, e potrebbe ambire a esserne il capo, ma non si lancerebbe mai nel vuoto, non farebbe errori come quello fatto dal segretario con l’alleanza con M5s. Lo farebbe solo se leghisti lo invocassero”.

Ecco spiegato il senso della lettera di Salvini, che non vede pericoli nell’immediato ma coltiva paure per il futuro, per una Lega non più in splendida forma come qualche mese fa, per un conto che prima o poi qualcuno vorrà presentargli. “Zaia sottoscriverebbe quella lettera – dice Feltrin – perché al momento non ha interesse a fare da fare da lepre, sarebbe impallinato per lesa maestà. Certo poi se Salvini inciampa credo si aprirebbe una discussione tra lombardi e veneti”. Più o meno la stessa lettura di Rocchetta, che però si raccomanda: “Scriva leader a livello si stato italiano, non nazionale. Perché la nazione è il Veneto”.

L’HUFFPOST

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