Venezia, primo film italiano in gara. “Noi, fragili figli degli anni di piombo”

Perché, Pierfrancesco, questa storia l’ha toccata nel profondo?

“Mi ha toccato perché racconta anche la mia infanzia: i genitori che non erano amici dei figli, che nascondevano ogni fragilità. Padri forti che parlavano poco con i figli. E questi figli che negli anni ’70, in mezzo alle tensioni politiche e al senso di minaccia che attanagliava la cronaca, erano pur tuttavia dei bambini, con la loro voglia di gioia e di gioco”.

Quei bambini di allora hanno realizzato il film di oggi. Qual è il senso del vostro racconto?

“Abbiamo raccontato una guerra che abbiamo visto, e che ci coinvolgeva. Ma abbiamo anche costruito una laicità non ideologica attorno a questo dramma. Siamo i bambini che, quando hanno rapito Moro, hanno percepito il dramma perché non c’erano i cartoni animati in tv”.

Claudio Noce, suo padre ha visto il film?

“In una proiezione privata a Roma: ricordo l’emozione fortissima di mio padre, che è un uomo che non si lascia andare. Ho capito quanto è stato colpito dal film. Per me il film è proprio una lettera a mio padre”.

Che cosa ricorda, lei, di quegli anni?

“La paura. Ogni volta che vedevo arrivare le auto con i poliziotti della scorta, magari mentre giocavo, non mi sentivo tranquillizzato, ma al contrario cominciava per me la paura”.

Favino, quale significato politico darebbe al film?

“È un film sentimentale, di emozioni. Per tanti anni ho cercato di appartenere, in qualche modo, a quelle tensioni che il film racconta. Ma non erano le mie. E forse il significato politico del film è proprio questo. E per me, è un film sul mistero del rapporto fra un padre e un figlio”.

È stato difficile – parlando di cose più leggere – per lei, romanista, toccare un pallone firmato dal bomber della Lazio Giorgio Chinaglia?

“Ho detto chiaro, fin dal primo giorno, a Claudio Noce che non avrei mai pronunciato quel nome!”. E Favino si rovescia la mascherina, che al suo interno ha i colori giallorossi. Tanto per chiarire.

QN.NET

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