L’errore di Giuseppi sottovalutare il voto

Augusto Minzolini

Forse ha ragione quella vecchia volpe democristiana di Gianfranco Rotondi: «Anche se alle Regionali finisse, che so, 6 a 1, in favore del centrodestra non succederebbe niente perché Conte direbbe che la disfatta non riguarda il governo. È l’assurdo della non politica di oggi.

Il motto è: non dare spiegazioni». Sull’altro versante, e cioè sullo spinoso tema del referendum sul taglio dei parlamentari, su cui il vertice del Pd propugna il «sì» mentre l’80% del gruppo dirigente propende per il «no», Zingaretti teorizza più o meno la stessa regola: «Non sono affatto convinto che se dovesse prevalere il no cadrebbe il governo. Non è così, parliamo di livelli diversi». Insomma, il centrosinistra potrebbe vincere solo in Campania, l’opposizione può arrivare a governare 17 Regioni del Belpaese su 20 (se il Pd perdesse sia la Puglia, sia la Toscana), ma il premier direbbe «chissene»: gli elettori possono pensarla come vogliono, ma la sua intenzione è quella di restare a Palazzo Chigi, come ha già spiegato nella sua prima sortita regionale. E Zingaretti, nel suo piccolo, nell’ipotesi più remota di una vittoria dei «no» al referendum, la pensa più o meno allo stesso modo. È il nuovo concetto di democrazia coltivato nei laboratori giallorossi. Il «grillismo» nell’interpretazione di Conte è passato dall’«uno vale uno», al «conto solo io e gli altri non contano un tubo».

Ma questa singolare concezione può davvero prevalere? Sicuramente il premier ci proverà. Tutto ciò che ha fatto nell’ultimo mese, il «detto» e soprattutto il «non detto», fa rotta su questo approdo. Conte, che non è un fesso, ha capito da un pezzo che la maggioranza di governo farà una figura barbina a settembre e allora, come uno struzzo, ha messo la testa sotto la sabbia. Delle elezioni regionali si è disinteressato del tutto. «È stato zitto – è la spiegazione dell’esperta Alessandra Ghisleri – perché non voleva ripetere la batosta umbra. Se si fosse speso in caso di sconfitta si sarebbe dovuto dimettere il giorno dopo». Poi, per paura, commettendo una sgrammaticatura di «stile» e andando contro la sintassi della politica, ha tentato di togliere in maniera maldestra dal campo la possibile alternativa, cioè Mario Draghi, dicendo che «è stanco», proprio mentre, non più di tre giorni fa, uno dei leader della maggioranza di governo, che ha parlato con l’ex governatore della Bce, ha tratto dal colloquio la convinzione opposta: «Non è pronto per fare il premier, è prontissimo».

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