Odio, la malattia sociale che ci lascia senza respiro
Willy Monteiro, il ragazzo ucciso a Colleferro
«Vi prego, basta, non respiro più». Sono le ultime parole di Willy mentre dei ragazzi poco più grandi di lui lo stavano pestando a morte. Perché era meno forte di loro, perché aveva un colore della pelle diverso dal loro. Sono le stesse parole, proprio le stesse, di George Floyd mentre un poliziotto gli teneva il collo sotto il suo ginocchio per un numero interminabile di minuti. Due episodi molto diversi tra loro, che sarebbe sbagliato accostare, ma uniti dalle stesse parole delle vittime.
Non respiriamo più. Ci toglie il fiato un’onda di violenza e di odio che sembra impossibile da frenare. L’odio non è un virus. È una terribile malattia sociale. La storia ci ammonisce a capirne le ragioni, prima di essere travolti dallo tsunami. Nasce, in primo luogo, dalla diseguaglianza sociale, dalla insicurezza del futuro, dalla sensazione che la vita sia un rischio, persino una minaccia, e non una possibilità. L’odio sociale è figlio delle crisi economiche e porta a individuare nell’altro il pericolo per la propria serenità e stabilità. E «l’altro» è chi ti viene indicato come colui che ti sta sottraendo ricchezza, come un intruso che viene a mangiare nel tuo piatto. È il «nemico» del quale hanno bisogno le idee autoritarie che si fondano sulla negazione delle differenze.
Le parole sono importanti. Ed è importante selezionarle: scartarle non meno di sceglierle. Ci sono parole che determinano comportamenti, che sdoganano e legittimano veleni che la fatica, il sangue e il sacrificio del novecento avevano riposto in un cassetto. Il loro riemergere toglie il respiro. Mi ha colpito, tra i messaggi dei social citati da un bel servizio del tg di Enrico Mentana, il tweet di un essere umano che, pubblicando il volto di una donna nera, la chiamava «scimpanzè». Mi ha fatto venire alla mente un’immagine della Difesa della razza, il giornale che costruì le condizioni del consenso alle leggi razziali del fascismo. È la fotografia di un vero gorilla, pubblicata nel novembre del 1942, proprio mentre i nostri soldati, trattati come bestie dal fascismo, morivano in Russia. La didascalia dell’immagine recita: «No: le cure del parrucchiere lo lasceranno scimmione come prima. Così un ebreo non potrà mai diventare ariano, malgrado tutti i virtuosismi anagrafici». Gli ebrei furono demonizzati. Furono descritti come un pericolo sociale, economico e un attentato alla purezza della cosiddetta «razza ariana». Si cominciò con le parole dell’odio e si finì ad Auschwitz.
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