Scuola, il maestro: «Così il Covid ha cambiato la percezione della morte nei bambini»
Cosa è stato il lockdown per i bambini?
«Ci
sono bambini che hanno goduto inizialmente di una specie di curioso
carnevale, in cui molte cose erano rovesciate, e altri che hanno
sofferto moltissimo. Sono aumentate in modo esponenziale le
discriminazioni e oltre un milione di bambini e ragazzi sono rimasti
isolati, completamente disconnessi. Quando si abita in tanti in spazi
ridotti o in famiglia regna la tensione o la sopraffazione, restare
chiusi in casa diventa un incubo. Le infanzie sono vissute in modi
completamente diversi. A tutti è mancata molto la presenza dei compagni,
l’incontro quotidiano, il vivere in una piccola comunità. Non
dimentichiamo mai che la metà dei bambini sono figli unici e stare
intere giornate circondati da adulti spesso non è una esperienza tanto
allegra».
In questa crisi è cambiata la percezione della morte nei ragazzi?
«I
bambini parlano spesso della morte. È molto presente in loro il tema
della scomparsa, dell’assenza, di cosa accade quando si muore. Credo che
in questa occasione abbiano piuttosto vissuto con trepidazione la paura
del mondo adulto che hanno visto, taluni per la prima volta, più
inquieto e con meno certezze. Seguire ogni sera i numeri quotidiani
della pandemia e incontrare la grande incertezza dei genitori sul da
farsi è certo entrato nell’immaginario infantile. Ci vorrà tempo per
scoprire cosa ha provocato. Anche a questo serve la scuola e credo che
incontrare adulti incerti, che si pongano domande, sia un bene. Se
saremo in grado di non riempire subito con facili certezze il grande
smarrimento provocato dalla pandemia, sarà per tutti una buona scuola di
umiltà e di umanità. E una straordinaria occasione per scoprire quanto
sia importante porsi domande e amare scienza e conoscenza. Capire è
importante, molto importante. La scienza è entrata nella nostra vita e
tutti ci siamo resi conto di quanto sia decisivo fare esperimenti,
studiare, cercare di capire. Quanto ci rassicuri poter far affidamento
su buoni medici e infermieri ce ne accorgiamo quando abbiamo un nostro
caro ammalato. In questo caso ce ne siamo accorti tutti insieme. Non
dobbiamo farci sfuggire questo piccolo varco che si è aperto e dobbiamo
esplorarlo anche con i bambini».
Temi che i bambini possano considerare l’altro da sé come un pericolo?
«Facciamo
un passo indietro. Una delle esperienze più significative e positive
che la scuola dell’infanzia ed elementare ha realizzato negli ultimi
trent’anni è stata la capacità di integrare con i figli di famiglie
straniere immigrate. È stata un’impresa enorme, realizzata spesso con
sensibilità ed efficacia dalle maestre (parlo al femminile perché sono
il 96%). La scuola primaria è stata il luogo pubblico più aperto
all’incontro interculturale, uno straordinario laboratorio di convivenza
tra diversi, tanto che molti insegnanti si sono spesi con convinzione
per lo Ius soli e lo Ius culturae. Oggi il rischio concreto che un
bambino avverta l’altro come portatore di malattia è da considerare con
estrema attenzione».
È il momento più difficile della scuola italiana?
«Conosco
insegnanti che non ci dormono la notte. Mantenere un metro di distanza
dal tuo compagno e indossare la mascherina ogni volta che ti alzi non è
facile. Pensiamo ai tanti bambini iperattivi o con disturbi del
comportamento. Cosa facciamo, li puniamo? Penalizziamo la loro
incapacità di stare fermi e seduti per ore? Allontanarli affidandoli a
un insegnante di sostegno o a un operatore sarebbe una sconfitta per
tutti perché darebbe luogo a nuove forme di apartheid educativo. E
allora bisogna lavorare con duttilità sui contesti e immaginare
soluzioni con grande creatività. Ci sono maestre che stanno progettando
ricreazioni in luoghi aperti della città. Credo che, ovunque sia
possibile, intorno alle scuole dovrebbero essere create isole pedonali
abitabili da bambine e bambini. Siamo di fronte alla sfida educativa più
difficile di sempre e si tratta di costruire insieme delle regole
sensate per andare incontro al bisogno di sicurezza, che sicuramente è
fondamentale perché riguarda tutti, ma anche condividere con i bambini
le difficoltà e cercare insieme soluzioni. Senza una lunga e complessa
costruzione di un sentire comune è difficile dare regole che siano
rispettate. Dobbiamo tutti metterci in ricerca e non limitarci ad
applicare protocolli, pur necessari. La parola chiave in questo momento è
includere tutti. Sapendo riconoscere che ogni ragazzo è diverso, ognuno
ha qualità originali, ognuno ha un background familiare che influenza
il suo apprendere. Ogni bambino è un mondo, non un numero».
La scuola, abbandonata nel territorio, finisce con l’essere isolata?
«La
scorsa primavera, quando le discriminazioni crescevano a dismisura e
troppi bambini e ragazzi sono rimasti completamente isolati, sono sorte
alleanze inedite tra insegnanti e operatori sociali attivi nel
territorio per fornire device a
chi non li aveva. Per affrontare le tante fragilità e disabilità, per
contrastare il crescere della povertà educativa, è necessario costruire
patti territoriali capaci di coordinare le scuole con i comuni, i
municipi, le Asl e il variegato mondo del terzo settore. Promuovere e
realizzare “comunità educanti” attorno alle scuole, come in tante realtà
difficili si sta cominciando a fare, è necessario più che mai perché
quello che si cerca a fatica di costruire nella scuola non venga
disfatto dal territorio che le circonda. Nel deserto la scuola da sola
non ce la fa. Ci sono quartieri urbani del sud in cui il 40% dei ragazzi
smette di frequentare la scuola dell’obbligo. Possibile che questo
inaudito spreco di intelligenze non venga messo all’ordine del giorno
della vita pubblica? Moltiplicare i linguaggi è il modo migliore per
cercare di includere tutti. Per questo le scuole devono essere aperte
tutto il giorno e offrire la più vasta e ricca varietà di proposte
educative e di incontro per ragazze e ragazzi. Sono anni che se ne
parla, è il momento di farlo. A 50 anni dall’istituzione del tempo pieno
non è tollerabile che riguardi solo un terzo degli studenti della
scuola di base. Questo vuol dire che si fa meno scuola dove ce n’è più
bisogno. La scuola pubblica deve restare al centro ed essere rafforzata,
ma dobbiamo immaginare le più larghe collaborazioni e mille forme di
intervento per contrastare la desertificazione culturale dei territori
più a rischio, investendo molto di più e meglio».
Consigli da dare all’attuale ministro?
«Credo
che la gestione di questa fase sia stata largamente inadeguata.
Pochissimo si è fatto per mettere in comunicazione le esperienze più
significative e renderle generative, tenendo vivo il confronto
educativo. Dobbiamo facilitare al massimo lo scambio di pratiche sensate
ed efficaci perché siamo in una fase di ricerca. Noi stiamo chiedendo
ai nostri figli e nipoti un sacco di soldi. È a loro che stiamo
chiedendo un prestito, non all’Europa. È sulle loro spalle che ricadrà
un debito pubblico di proporzioni gigantesche. E allora abbiamo
l’obbligo etico, prima ancora che politico, di risarcirli. E l’unico
modo per risarcire le nuove generazioni sta nell’investire in
istruzione, educazione, ricerca e formazione almeno il 20% del recovery
fund. L’Italia è l’unico Paese in Europa che affrontò la crisi del 2008
tagliando fondi all’istruzione. Mentre tutti investivano di più,
Tremonti tagliò 8 miliardi alla scuola di base».
In nessun luogo sociale come la scuola è giusto sperimentare una dimensione circolare invece che verticale?
«Calamandrei
diceva: “Se lo Stato fosse un corpo, la scuola sarebbe l’organo
ematopoietico”, cioè dove si forma il sangue. Questo luogo non può che
essere partecipato e attivo. Un luogo in cui bambini e ragazzi siano
protagonisti. E allora affrontare le difficoltà della sicurezza nella
scuola può diventare una grande palestra di democrazia. Una reale
educazione civica deve cogliere oggi questa sfida: scriviamo insieme le
regole per proteggere la salute di tutti. Ma per poterla cogliere
dobbiamo impegnarci assai ed essere consapevoli che la scuola è un luogo
di creazione culturale e non di pura trasmissione di conoscenze. In
questo momento la cultura di cui abbiamo maggior bisogno riguarda
l’attenzione e la cura. Se ci pensi lo scorso anno scolastico iniziò il
27 settembre, con le grandi manifestazioni del movimento dei venerdì del
futuro promosso da Greta Thunberg. Quelle manifestazioni dicevano una
cosa chiara: capire e cambiare. Se tu non cambi vuol dire che non hai
capito. Oggi quel capire e cambiare parte dalla costruzione di una
cultura della cura. Cura delle relazioni reciproche, degli spazi che
abitiamo, degli equilibri del pianeta. Se non ora, quando?».
La scuola resta ai margini delle scelte pubbliche…
«Mi
fa un po’ rabbia che parlino di centralità di ricerca e istruzione solo
Draghi o Visco. Mi piacerebbe fosse all’ordine del giorno di chi
governa. Dovrebbe essere la priorità di un Paese che ha bisogno di
profonde trasformazioni per crescere e aprirsi a una profonda
conversione ecologica. È una vergogna che l’Italia sia penultima in
Europa per numero di laureati: il 27,6% contro il 40,3% della media Ue.
Questa mancanza di desiderio di istruzione deve interrogarci come
insegnanti, perché se così tanti giovani non credono nella conoscenza
come possibilità di sviluppo della loro personalità, qualche
responsabilità credo che l’abbiamo anche noi. È importante rivendicare
la centralità della nostra funzione, ma anche darci da fare».
L’Italia non è un Paese per giovani…
«Negli
ultimi anni a scuola con i bambini ho lavorato molto sulla statistica.
La cosa che più li colpiva era che al sud del Mediterraneo il 50% della
popolazione fosse sotto i 24 anni e da noi invece meno del 20%. Una
bambina un giorno ha detto: “Se al nord sono vecchi e ricchi e al sud
giovani e poveri, cosa succederà?”. Un’altra una volta ha fatto una
scoperta sorprendente. Stavamo lavorando sull’emigrazione e lei si è
ricordata di un quadro di Giotto su cui avevamo lavorato a lungo in
prima elementare: la cacciata dei demoni da Arezzo. Davanti a san
Francesco c’è la città di Arezzo con due porte, dalle quali si
affacciano un povero e un ricco. In mezzo c’è un abisso, la terra è
spaccata. Da quel crepaccio si levano demoni che volteggiano in cielo.
Questa bambina, in terza elementare, ha esclamato: “Allora il mar
Mediterraneo è la spaccatura di Giotto”. Ecco, questa capacità di fare
associazioni e domandarci cosa accade con la ricchezza di suggestioni
che provengono da un affresco del 1300 mi ha confermato che questa è la
cultura di cui abbiamo bisogno. Osservare un quadro, leggere un racconto
o ragionare su una tabella di dati può aiutare a capire cosa succede
oggi, quando lo colleghiamo alla nostra vita. Quando accade, bambine e
bambini si emozionano, scoprono la gioia della conoscenza, che può
essere ricerca attiva, scoperte da condividere, scambio. Mi fa disperare
la scuola che rende tutto uguale: fai geografia, musica o scienze e
tutto è sempre uguale, leggere o ascoltare, mandare a mente, ripetere in
una interrogazione o verifica. Se non si dà voce alle diverse opinioni
di chi impara perdiamo la radice più feconda della motivazione allo
studio che è sforzo, fatica, ma anche gioia della scoperta di
connessioni inattese».
Bisogna inventare un nuovo modello, sperimentare…
«Questo
sarà l’anno degli occhi, perché ci dovremo guardare tantissimo. Sono
convinto che sarà utile mettersi spesso le mascherine per avere la
libertà di disporsi in cerchio, discutere, cercare insieme. Mettiamo le
mascherine e facciamo in modo di lavorare scambiando pensieri tra i
bambini e non solo guardando verso la cattedra. Immaginare di tenere
quattro o sei ore i bambini seduti e distanziati è assurdo. E poi
usciamo e cerchiamo e proviamo a utilizzare tutti gli spazi possibili e
immaginabili nella città. Sempre Calamandrei definiva la scuola come
“incubatrice di vocazioni”. È una espressione che mi piace molto:
l’incubatrice è una macchina costruita per far fronte alle difficoltà
della natura e superarle. La scuola deve essere proprio questo: sono
tanti i bambini che soffrono, un milione di bambini vivono in condizioni
di povertà assoluta. E allora le scuole dovrebbero farsi incubatrici,
per limare le differenze e fornire opportunità. Sono lo spirito e la
lettera della nostra Costituzione».
Se dovessi dire il momento più bello vissuto da educatore e quello da alunno, quali sceglieresti?
«Come
studente certamente l’incontro con Emma Castelnuovo alle medie. Ci
faceva creare la matematica, ci faceva gioire nel capire. Quando la
scuola è questo, è un luogo di sogno. I momenti più felici da insegnante
sono quelli in cui ho imparato di più ascoltando i miei alunni. Un
giorno una bambina, dopo un lungo lavoro su Gandhi e la nonviolenza, ha
detto: “Ho capito… Gandhi non dava ragione a uno, ma a due”. Una
sintesi geniale del pensiero nonviolento. Ne abbiamo parlato a lungo.
Che voleva dire? Si era resa conto che la ragione di uno non è mai
assoluta».
Hai scelto di portare il tuo desiderio di cambiare il mondo e combattere le discriminazioni nel piccolo, con i piccoli. Per il Talmud salvare una persona significa salvare il mondo intero…
«Nel Talmud mi hanno raccontato che non viene mai pronunciata la parola maestro, sostituita dalla bellissima espressione di “scolaro saggio”. Solo chi riesce a rimanere scolaro tutta la vita può provare a far bene il mestiere di maestro».
CORRIERE.IT
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