Lo Stato invadente e invisibile
Ma il tentativo non è riuscito (il taglio ha intaccato solo il 14 per cento delle partecipate). L’errore è stato quello di voler affrontare un così grande e diversificato numero di enti dall’alto, invece di procedere come fece Ugo La Malfa nel suo famoso rapporto dell’aprile 1951 su «la riorganizzazione delle partecipazioni economiche dello Stato», che partì dall’analisi economica, settore per settore, società per società. Non si governa una realtà tanto magmatica se non la si conosce e valuta dall’interno. L’altro errore è stato quello di trasferire vincoli pubblicistici su questo universo regolato dal codice civile, con la conseguenza di diminuire o annullare i benefici della veste privatistica delle società veramente utili e di non frapporre sufficienti limiti per quelle inutili.
Le conseguenze di questi insufficienti tentativi di porre rimedio sono indicate dal rapporto del febbraio 2020 del Fondo monetario internazionale. Questo ha osservato che le disposizioni dettate nel 2016 sono state indebolite o rovesciate e che la complessità e le incertezze nell’applicazione ne hanno fortemente attenuato l’impatto.
Una volta, nei decenni iniziali della storia repubblicana, era inibito agli enti territoriali di ricorrere all’istituzione di società e fondazioni. Poi, le maglie si sono allargate, ma si è mantenuto un controllo indiretto, di ordine finanziario. Ora è venuto meno anche quello, con la conseguenza che il nostro è divenuto uno Stato «à la carte», dove ognuno si serve come crede e nessuno si pone poche essenziali domande, che proverò a riassumere, facendo proprio riferimento alle «Film commissions».
La prima: è ragionevole che le Regioni si interessino di cinema e audiovisivo? Non dovrebbero piuttosto dedicare le loro energie alla sanità, ai trasporti, all’assistenza? Se il cinema rientra nell’ambito della cultura, non dovrebbe interessarsi anche di questo il Ministero dei beni culturali e del turismo? La seconda: se le esistenti diciannove istituzioni locali-regionali si riconoscono come omogenee, tanto da associarsi sia a livello nazionale, sia a livello sovranazionale, perché poi seguono regole diverse nella gestione (ad esempio, alcune applicano le regole sulla trasparenza, altre sembrano dimenticarle)? La terza domanda riguarda tutto l’ambito delle partecipate: se da queste dipende un milione di persone, perché mai continuiamo a sostenere che gli addetti delle pubbliche amministrazioni sono circa 3 milioni e mezzo? Non dovremmo aggiungervi anche questo altro milione, con la conseguenza di smentire coloro che sostengono la tesi secondo la quale il rapporto dipendenti pubblici-popolazione sarebbe in Italia tra i più bassi d’Europa (ciò che consente di far partire nuovi concorsi in abbondanza)?
Una volta, fino agli anni ’90 del secolo scorso, avevamo un vasto numero di enti e società nazionali. Ridotti questi, si è ampliata la sfera delle organizzazioni satelliti locali. Sarebbe ora di razionalizzare queste frange degli enti territoriali. Se ne accorgeranno coloro che vogliono ridurre parlamentari, vitalizi, indennità?
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