Non cambia nulla ma è già cambiato tutto
Ecco, la fragilità è così endemica e strutturale che il Potere così concepito ha bisogno di dimostrare che nulla può influire su di esso. Ed in tal modo svela di essere nudo. Nell’esorcismo preventivo c’è già, qui ed ora, il senso che l’ingranaggio si è rotto, perché il tempo della politica e il tempo della democrazia non coincidono, in un momento in cui la gente è appesa a uno spiraglio di vita che si è riaperto e teme possa richiudersi, come sta accadendo nei paesi in cui è tornata attuale la prospettiva di nuovi lockdown. E invece mai come stavolta, bon gré mal gré, il voto nel suo insieme ha un valore politico nazionale che emerge anche nelle pieghe di una narrazione scomposta tesa a disinnescare ciò che non è disinnescabile (le urne), paventando al tempo stesso il rischio di un “pericolo democratico”. Pericolo che, per definizione, qualora diventasse realtà reca in sé il più straordinario e inquietante dei cambiamenti.
Il vento non si ferma con le mani, e neanche con le parole. Non sarà un giudizio di Dio – anche questa drammatizzazione di ogni appuntamento elettorale, l’altra faccia della minimizzazione, è segno dell’anomalia di un paese talmente disabituato al voto da viverlo come un Armageddon – ma la forma del risultato è destinata a propagare i suoi movimenti tellurici nei partiti, a destra come a sinistra. A destra, dove la parabola della leadership di Salvini è legata al risultato della Toscana e quella della Meloni a Marche e Puglia. A sinistra, dove Zingaretti si gioca tutto sulla Toscana: in caso di sconfitta, ad alto impatto simbolico, politico, emotivo è complicato scaricare la responsabilità solo sui disastri del renzismo; in caso di vittoria, peraltro in regioni dove il suo alleato di governo ha rifiutato l’alleanza potrà evitare il rischio di una lacerante tenzone interna che metta in discussione la segreteria e, magari, trovare la forza per imprimere la famosa svolta all’azione di governo.
Già, il Pd, il baluardo della democrazia contro le destre, come si ama ripetere. Ci sarebbe da scrivere un trattato su come è arrivato all’appuntamento cruciale: la sua sfida, e la sua tenuta, è affidata ai volti e alle esperienze che meno esprimono rinnovamento, riformismo, tempo e metodi nuovo: i “califfati clientelari” di Emiliano e De Luca, con liste inzeppate di gente che viene dalla destra e di “impresentabili”, si sarebbe detto una volta, a leggere nomi e capi d’accusa che emergono dalle carte dell’Antimafia, ma anche questo argomento è stato ignorato (ricordate Rosi Bindi la volta scorsa?) in nome di una acritica difesa dell’esistente; in Toscana, per scelta di Renzi, il volto di Giani, espressione di un sistema certo di buongoverno, ma non certo di una radicale innovazione. E ci sarebbe da scriverne un altro su come si ritrovi in guerra senz’armi, costretto a rispolverare il vecchio armamentario del pericolo fascista, in mancanza di un governo che governi – sarebbe bastato risolvere l’Ilva per non avere ansia in Puglia – e di un’alleanza con i Cinque stelle che funzioni.
Ecco, come evidente, il negazionismo preventivo di ciò che accadrà è destinato, comunque vada, a rimanere solo la spia della disinvoltura di una classe dirigente formatasi nell’epoca del presentismo e della dittatura dell’istante. Le vittorie, le sconfitte, il mutamento dei rapporti di forza reali sono destinati a pesare nel rapporto tra i partiti, e dunque nella vita dei governi. Così come un eventuale Parlamento che fotografa un paese che non c’è più. Se non cambia niente significa che la famosa “scatola di tonno” del sistema democratico non è stata aperta, ma scassata del tutto, con la beffa che anche chi voleva aprirla è rimasto vittima delle proprie macchinazioni.
L’HUFFPOST
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