Colpevole
Matteo Salvini ha diffuso la memoria difensiva con la quale conta di scampare alla condanna per sequestro di persona (il processo comincia fra una settimana a Catania) per il blocco della nave Gregoretti. Le considerazioni a discarico proposte dal Capitano hanno anche qualche pertinenza, ma qui continuano a prevalere i dubbi se la politica della Lega, e più in generale la politica del governo gialloverde, sia questione regolabile per via giudiziaria. Tenere a mollo oltre cento immigrati non fu una soluzione adottata col favore delle tenebre, ma ben squadernata e ben rivendicata, e alla quale l’esecutivo non si oppose: gli inviti privati alla ragionevolezza di Giuseppe Conte, successivamente diffusi, sono ben piccolo alibi per un presidente del Consiglio, per i poteri di cui dispone e la responsabilità che porta.
Seguiremo le udienze con attenzione e laicità, ma non sarà una sentenza né di colpevolezza né di innocenza a farci cambiare idea. Il problema, non misurabile col codice penale, è proprio nella spettacolarità e nella protervia con la quale Salvini negò lo sbarco ai disperati della Gregoretti. Voleva far vedere ai suoi elettori, perlomeno ai più ferventi, di quale pasta è fatto. Lo conosciamo bene, ormai: è fatto della pasta che lo conduce, col codazzo di giustizieri, a suonare al citofono di un nordafricano della periferia di Bologna per chiedergli se si mantenga spacciando droga. La stessa pasta – lui è uno che non sta lì a perdere tempo con fregnacce come la presunzione d’innocenza, sono fumisterie da parrucconi che hanno rovinato questo paese – per cui allo stupratore glielo taglierebbe, testuale, ma solo chimicamente, precisa il giurista, e per quest’altro butterebbe la chiave e quest’altro ancora lo farebbe marcire in galera, e con particolare rapidità e determinazione se ha la faccia un po’ scura.
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