Covid, contare i morti significa sentirli vicini
Diciamo un milione di vittime, ma non ci crediamo. E non ci crediamo perché non le vediamo.
Se mi viene chiesto di immaginare dieci persone in una stanza riesco a farlo senza esitazioni. Con appena più sforzo posso raffigurarmene cento o perfino mille dentro un teatro. Ma se mi parlano di trentamila persone in piazza la mia sicurezza vacilla. Quelle che vedo saranno davvero trentamila o magari il doppio? Numeri molto diversi generano nella nostra testa figure simili.
Un milione, poi, è fuori dalla nostra portata, un milione è un pensiero astratto e incorporeo. Per scriverlo ci vogliono troppi zeri. Eppure il milione è l’ordine di grandezza attuale della pandemia.
Sono oltre trenta milioni i casi accertati di contagio dall’inizio, e oggi superiamo la soglia del milione di morti. Ogni giorno se ne aggiungono in media altri cinquemila.
Con numeri così le analogie sono l’unico appiglio di cui disponiamo, perciò ricorro a una, con il rischio che appaia stucchevole. Se guardando il cielo di notte vi è capitato di pensare, come a me, che state vedendo un milione di stelle tutte insieme, è bene sapere che si tratta di una percezione falsa. Straordinariamente lontana dalla realtà. In circostanze molto fortunate, di aria tersa, senza luna né inquinamento, se ne possono vedere a occhio nudo meno di cinquemila. Meno dei morti di covid del mondo nelle ultime ventiquattro ore. Dunque l’analogia è questa: allo stato attuale, l’intera volta celeste viene spenta ogni notte dal coronavirus con un clic di interruttore.
A ogni passaggio l’epidemia ci ha posto di fronte all’inadeguatezza del nostro intelletto. Disponiamo degli strumenti psichici sbagliati per valutarne l’entità, perciò spesso rinunciamo. Se i primi morti di marzo avevano trovato un’accoglienza nei nostri animi squassati e impauriti, quelli che si sommano adesso sembrano solo il rumore di fondo delle nostre giornate epidemiche. Pensiamo sempre di più ai nuovi contagi, cioè a noi stessi, e sempre meno ai nuovi morti.
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