È impossibile fare finta che i numeri non contino

Ciò che questo referendum rivela, in realtà , è la condizione di stallo in cui ci troviamo. Per lo meno quando si parla di Costituzione, l’Italia sembra divisa in quattro gruppi di forza più o meno equivalente.

Il primo gruppo è composto dagli indifferenti, i disinteressati al problema, quelli che non hanno votato in alcuno dei tre ultimi referendum costituzionali: del 2006 ( riforma Berlusconi), del 2016 (riforma Renzi), del 2020 (riforma 5 Stelle).

Il secondo gruppo è quello degli antiparlamentari: più che disponibili ad aprire il Parlamento come se fosse una scatoletta di tonno, a colpire l’odiata casta di deputati e senatori, per nulla interessati a migliorare la funzionalità del sistema parlamentare. Come per tutti i rivoluzionari , per gli antiparlamentari vale il principio del «tanto peggio, tanto meglio»: tanto più si rivela inefficiente il Parlamento e tanto meglio è per la causa antiparlamentare.

Il terzo gruppo è composto daiconservatori, i fautori dell’intangibilità della Costituzione. Per loro, è la più bella del mondo e qualunque progetto di riforma costituzionale odora di fascismo. Non c’è dubbio che una parte dei «no» anche in quest’ ultimo referendum sia stata espressa dai conservatori. Antiparlamentari e conservatori possono formare insieme, occasionalmente, una maggioranza di blocco quando si scontrano con il quarto e ultimo gruppo.

L’ultimo gruppo è quello dei riformatori, è composto da coloro che vorrebbero riformare la Costituzione migliorando la funzionalità del sistema parlamentare. In questo referendum, plausibilmente, gli appartenenti a questo gruppo si sono equamente divisi fra il «sì», il «no» e l’astensione. Nel complesso, si tratta di un gruppo numeroso ma non maggioritario.

La divisione dell’elettorato in quattro gruppi di forza equivalente spiega perché sia illusorio immaginare che la vittoria del «sì» sul taglio dei parlamentari possa essere usato per favorire altre (e più sensate) riforme. Non è possibile per il fatto che la maggioranza di questi «sì» non è riciclabile, non è spendibile in chiave riformatrice. Come ha perfettamente capito il «rivoluzionario» Grillo.

Retorica e coazione a ripetere sono caratteristiche ineliminabili della politica italiana. Quando non si hanno idee, quando non si sa che cosa dire, si dichiara solennemente che «è arrivata la stagione delle riforme». L’idea (non necessariamente sbagliata) è che coloro ai cui ci si rivolge — gli elettori, o molti di loro — siano immemori del passato, non si ricordino di quante volte la suddetta stucchevole frase sia stata ripetuta nell’ultimo trentennio. Ma è solo retorica e coazione a ripetere. Si (ri)parla di riforme costituzionali e intanto si pensa a come fare una controriforma elettorale (ossia, a come tornare definitivamente al vecchio sistema proporzionale). Al netto di tutti gli errori che commise allora Matteo Renzi, al netto della volontà di tanti elettori di colpire lui più che il suo progetto di riforma costituzionale, resta che al più organico tentativo di rinnovare il sistema parlamentare, nel referendum del 2016, il sessanta per cento dei votanti disse «no». Non è proprio il caso di fare finta che i numeri non contino.

CORRIERE.IT

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