Coronavirus, le condizioni di Trump: sei indizi per capire come sta
Indizio numero uno: Hope. Sembra troppo facile, persino banale scaricare tutte le responsabilità su Hope Hicks, 31 anni, ex direttrice della Comunicazione per lo Studio Ovale e di recente ripescata da Trump per la campagna elettorale. E invece è esattamente ciò che ha fatto il leader dello Studio Ovale, additandola al mondo come la sospetta paziente numero uno del focolaio alla Casa Bianca. Giovedì 1 ottobre il presidente rientra esausto da una raccolta fondi nel suo resort di Bedminster, in New Jersey. Probabilmente non sta bene e lo fa capire al suo amico giornalista Sean Hannity, in diretta tv su Fox. Nel frattempo è arrivata la notizia che Hope ha contratto il virus. Il suo boss commenta: «Hope Hicks non si è sottratta agli abbracci dei militari e degli agenti di polizia. E’ una ragazza giovane». A rigore, quindi, secondo Trump «gli untori» sarebbero i soldati in servizio a Duluh, in Minnesota; Hicks, invece, il «vettore» che ha portato il coronavirus fino a Washington. Qui ci sono diverse cose che non quadrano. Ci torneremo tra poco. Adesso è il momento di fare un passo indietro.
Indizio numero 2: Ronna. Hicks si sente male mercoledì 30 settembre a bordo dell’Air Force One, di ritorno dal Minnesota. Ma già cinque giorni prima, il 25 settembre, era accaduto qualcosa di cui prendere nota. Quel venerdì il presidente partecipa a una raccolta fondi al Trump International Hotel di Washington, il grande albergo ricavato dall’antico Palazzo della Posta. Hope non c’è: raggiungerà il suo capo solo in serata per un altro evento. La riunione al Trump Hotel è abbastanza affollata e, naturalmente al chiuso. Il leader-candidato è accolto dalla presidente del comitato nazionale del partito repubblicano: Ronna McDaniel, 47 anni, texana, nipote del senatore Mitt Romney. Pochi giorni dopo Ronna avverte i sintomi del virus. Fa il test e mercoledì 30 settembre riceve l’esito: positivo. E’ stata allora lei a contagiare il presidente? Oppure è accaduto il contrario? In teoria non si può escludere che «The Donald» fosse già infettato e magari asintomatico. In ogni caso il ritrovo al «Trump International Hotel» «scagiona» in tutto o in parte Hicks.
Indizio numero 3: Amy. La trama è più complessa. In realtà è evidente un livello di responsabilità diffusa nell’establishment repubblicano. L’indizio più forte è ciò che accade sabato 26 settembre. Alla Casa Bianca arriva Amy Coney Barrett, giudice nominata da Trump per la Corte Suprema. In mattinata, incontri riservati nello Studio Ovale. Nel pomeriggio presentazione ufficiale nel Rose Garden. Già allora ci furono subito aspre polemiche: gli invitati vennero stivati nel giardino, senza le adeguate distanze. Pochissimi avevano la mascherina. Tra i contagiati di oggi ne troviamo diversi che seguirono la cerimonia senza proteggersi naso e bocca: la First Lady, Melania Trump; la consigliera Kelyanne Conway; i senatori Mike Lee e Thom Tillis; l’ex governatore del New Jersey Chris Christie; John Jenkins, presidente dell’Università di Notre Dame.
Indizio numero 4: Bill. Martedì 29 settembre. Il clan trumpiano è in volo sull’Air Force One verso Cleveland per il dibattito televisivo con Joe Biden. Il moderatore del confronto Chris Wallace ha dichiarato che il presidente e i suoi si presentarono in ritardo e non fecero in tempo a sottoporsi al tampone. Inoltre erano tutti senza mascherina, tranne Melania. A bordo dell’aereo presidenziale c’è Hope Hicks, ma anche il capo della campagna, Bill Stepien, 42 anni. Venerdì 2 ottobre, Bill andrà ad allungare l’elenco dei positivi.
Indizio numero 5: Donald. Ed eccoci al protagonista assoluto. Mercoledì 30 ottobre «The Donald» viene sicuramente informato che Hope è stata male sull’Air Force One, tanto che i medici l’avevano isolata in una cabina. Ma è l’ultima cosa che sappiamo con certezza. Da qui in poi entriamo nella aerea più torbida dell’intera storia. L’opinione pubblica scopre che la consigliera è positiva al Covid solo intorno alle 20 di giovedì 1 ottobre, grazie a uno «scoop» dell’agenzia «Bloomberg». Per tutta o una buona parte della giornata, quindi, la Casa Bianca ha insabbiato la notizia. Perché? La risposta più convincente è che a quel punto Trump avrebbe dovuto sospendere la campagna elettorale e mettersi in quarantena. Chi si è preso la responsabilità di andare avanti comunque? Il dottor Conley? Decisamente no. Il capo dello Staff Meadows? Difficile. La soluzione più probabile porta a Donald Trump. Il presidente, dunque, decide di tenere fede agli impegni presi. Va in New Jersey. Prosegue la sua attività come se nulla fosse.
Indizio numero 6: Sean. Tra giovedì notte e venerdì pomeriggio Trump rischia grosso. All’una di notte annuncia via Twitter di essere stato investito dall’epidemia. Come rivelerà Meadows, «i suoi parametri vitali sono molto preoccupanti». Eppure il suo medico curante, Sean, lo copre con una nota ufficiale improntata all’ottimismo : «sintomi lievi» e così via. Ancora una volta: perché? Venerdì mattina Trump ha la febbre e con tutta probabilità viene assistito anche con ossigeno aggiuntivo. Nel tardo pomeriggio la decisione di trasferirlo in ospedale.
Sabato 3 ottobre, Sean e altri nove medici del Walter Reed Medical Center tengono una conferenza stampa che, alla luce delle rivelazioni di Meadows, si rivela grottesca. Il dottore scivola anche sulle date, alimentando ulteriori sospetti. Fa risalire la prima diagnosi di Covid-19 a «72 ore» prima, cioè a mercoledì 30 settembre. Poi si corregge in serata con un comunicato un po’ da sofista: «Volevo dire che oggi siamo nel terzo giorno». Resta, quindi, la prima versione ufficiale: il presidente è stato trovato positivo giovedì 1 ottobre. Usciamo da questo pasticcio con l’ultimo messaggio di Meadows, confermato sabato sera da un video girato dallo stesso Trump: le prossime 48 ore saranno decisive per la salute del presidente e anche per questa allucinante stagione americana.
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