Quando litigare ci aiutava a capire
di Beppe Severgnini
Violenza senza senso. Così, spesso, liquidiamo la nostra incapacità di comprendere episodi che ci inorridiscono. Invece la violenza ha sempre un’origine e una spiegazione; che non è quasi mai una giustificazione, ma aiuta a comprendere. Perché quella reazione sproporzionata alla provocazione? Perché la perdita di controllo in situazioni, tutto sommato, controllabili? Da dove arriva la furia esibizionistica che sta diventando un rito del sabato sera? Certo: dal vuoto, dalla cocaina, dall’impunità, da alcuni pessimi esempi. Ma anche da una mancanza: i nuovi italiani non sanno più litigare.
Il litigio non è violenza. Talvolta sfocia lì, purtroppo, ma si dovrebbe fermare prima. Il litigio è anche un modo per disinnescare l’aggressione. Uno strumento per sfogarsi e magari, alla fine, per capirsi. Lo sanno gli amici e le coppie sane. Lo sanno i bambini dell’asilo e i loro insegnanti. Lo sapevamo noi nei cortili e negli oratori degli anni Sessanta, dove la discussione, lo scontro e l’armistizio erano pratiche quotidiane. All’ombra di un campanile e su un campetto spelacchiato, molti di hanno imparato non soltanto a correre, a giocare a calcio e a usare le parolacce (conoscenze fondamentali, nell’educazione degli italiani). Hanno imparato a litigare.
Abbiamo studiato molto, per prendere il diploma ufficioso di litiganti inoffensivi. Veniva rilasciato in ogni oratorio — in Veneto li chiamano patronati — e avviene ancora, per fortuna. Ma solo ottomila parrocchie italiane — su ventisettemila — oggi dispongono di una struttura destinata al tempo libero degli adolescenti (alcune stanze, un bar, un campetto sportivo). Un terzo stanno in Lombardia. Luoghi aperti quasi ogni giorno, con un’offerta di attività che va dal gioco allo sport, dalla formazione al doposcuola, dal volontariato alle gite, fino all’oratorio estivo/Grest.
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