Quando litigare ci aiutava a capire

In occasione della presentazione della ricerca Ipsos nel 2018, Nando Pangoncelli ha commentato: «L’oratorio accoglie, integra, abitua i giovani italiani e stranieri alla convivenza, senza chiedere in cambio nulla». È un riassunto efficace, che coglie due aspetti fondamentali. Il primo: l’oratorio è un luogo gratuito — a differenza del centro commerciale, che oggi spesso lo sostituisce come luogo di aggregazione — e questo porta a non escludere nessuno, limando le differenze sociali. Il secondo punto è ancora più importante: gli oratori sono luoghi tolleranti. Non insegnano soltanto a litigare, aiutano a conoscersi e a capirsi. Una razzista in oratorio è come un medusa sulla spiaggia: dura poco.

L’oratorio, quand’ero adolescente, era un ambiente maschile. A partire dagli anni Settanta, non più. Ricordo alcune visite, in particolare quella a Osio Sotto (Bergamo) nel 2001, invitato dal curato, don Michele Falabretti, oggi responsabile della Pastorale Giovanile della Cei. Ragazzi e ragazze curiosi e vivaci, che di certo litigavano tra loro. Ma avevano imparato a controllare la rabbia, perché lo chiedeva lo spirito del luogo. Gli adolescenti lo sanno: una litigata è superabile; un’aggressione, spesso, irreparabile.

È la lezione che molti di noi hanno appreso all’asilo Montessori, ancora oggi sontuosa scuola di bisticcio. Le maestre sanno che la caccia al colpevole è quasi sempre inutile. Il litigio non è una colpa, ma un’occasione per imparare a stare insieme, spiegano Daniele Novara e Luigi Regoliosi in un libro illuminante, I bulli non sanno litigare (ed. BUR parenting). Un pedagogista e uno psicologo, due formatori, mostrano quello che dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti: il conflitto non è un incidente di percorso, un imprevisto. Appartiene alla struttura relazionale. «Per fortuna esistono i litigi infantili. L’idea che gli altri debbano semplicemente accondiscendere alle nostre opinioni e alle nostre aspettative — scrivono i due autori — è onnipotente e insidiosa».

Il conflitto è una risorsa. Il litigio, una tecnica. E va appresa, come molte cose nella vita. Ma i luoghi per farlo diminuiscono. Resta la scuola, certo, dove però il timore delle responsabilità spinge insegnanti e dirigenti a chiedere sempre più disciplina. Gli oratori italiani, cinquant’anni fa, erano più numerosi e attiravano ogni fascia sociale: al San Luigi di Crema era irrilevante essere figlio di un notaio o di un operaio: contava come correvi nel fango e calciavi al volo di sinistro. Lo scoutismo è ammirevole, ma per le famiglie italiane non rappresenta più — ho l’impressione — una scelta educativa tanto comune. Per la mia generazione – posso testimoniarlo – erano una destinazione consueta e una strepitosa palestra di rivalità, competizione e composizione di conflitti adolescenziali. Spesso bruschi: l’ambiente scout era molto fisico, la forza dello spirito e quella dei muscoli godevano di uguale considerazione.

Anche la scomparsa del servizio militare ha privato la società di un luogo per la risoluzione dei conflitti. La naja era lunga, faticosa, ma — vogliamo dirlo? — incredibilmente democratica. Un vero frullatore nazionale, dove la varietà (geografica, culturale, sociale, economica) era assicurata. Chi di noi ha svolto il servizio di leva ricorda bene le tensioni e le prepotenze, magari scioccamente giustificate con l’anzianità (nonnismo). Ma non c’è dubbio: in quei dodici mesi abbiamo imparato a schivare gli aggressivi, a gestire i rompiscatole, a riconoscere i generosi e a perdonare gli stupidi. La parte militare? Non così importante, e dimenticata in fretta.

Provo a riassumere. Dove litigano, adesso, i ragazzi? In un centro commerciale o fuori da una discoteca. E lo fanno peggio, rischiando di farsi male.

CORRIERE.IT

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