Comuni sciolti per mafia, ecco perché Gomorra non se ne va

In tal caso, viene nominata una commissione straordinaria di tre membri che si insedia e guida il Comune dai 12 ai 18 mesi, prorogabili a 24 in casi eccezionali. Dopodiché si tengono nuove elezioni. Un iter lungo e complesso che finora ha toccato ben 263 enti, compresi un capoluogo di provincia (Reggio Calabria) e sei aziende ospedaliere. Praticamente oltre il 3% dei 7.903 comuni italiani sono stati sciolti, in 50 casi il decreto è scattato due volte, in 18 addirittura tre. Lo scorso anno oltre 900 mila italiani non sono stati più amministrati dagli organi locali che avevano eletto. Quella sui comuni sciolti per mafia è una normativa pilastro nella lotta alla criminalità organizzata, tuttavia, dopo tre decenni, mostra crepe e lacune. E da più parti se ne chiede la modifica. Attualmente sono in discussione alla Camera dei deputati tre proposte di riforma, che cercano di rimediare ai problemi emersi durante l’applicazione.

Pochi commissari

Partiamo dai 68 comuni sciolti più di una volta, come Casal di Principe (Caserta) tra i primi ad essere sciolti nel 1991, e poi ancora nel 1996 e nel 2012. È evidente che i tempi previsti dalla legge in cui può operare la commissione straordinaria (2 anni al massimo) a volte non sono sufficienti a recidere i fili del malaffare. Quali le ragioni? L’associazione Avviso pubblico, che mette in rete 400 enti locali e 10 regioni e che attraverso l’Osservatorio parlamentare monitora costantemente la situazione, indica tra l’altro la «penuria di risorse umane e strumentali» delle commissioni. Chi subentra al posto di sindaco e giunta, è un numero ristretto di funzionari, quasi sempre costretti a dividersi tra più impegni, con scarse risorse finanziarie e con pochi mesi a disposizione. La legge 132 del 2018, di cui però manca ancora il decreto ministeriale attuativo, prevede un «nucleo» di uomini da cui attingere in caso di scioglimento, formato da 50 persone. Troppo poche, secondo il Sinpref, l’Associazione sindacale dei funzionari prefettizi, che chiede di arrivare ad almeno 75 unità, ma anche di prevedere «sezioni apposite in cui siano presenti, per esempio, professionisti con competenze finanziarie visto che quasi un comune su tre (il 28,6%) di quelli sciolti ha dichiarato il dissesto o è ricorso alla procedura di riequilibrio (a fronte di una media nazionale del 4,7%). Personale adeguato e competenze specifiche che andrebbero previste anche per le commissioni di accesso.

L’ostilità dei dipendenti

Per i commissari imprimere una svolta a un Comune sciolto è spesso una vera e propria impresa: si ritrovano ad operare con una struttura di dirigenti e impiegati legati ai politici rimossi, se non direttamente agli ambienti criminali. In più la popolazione e’ in gran parte scettica, o indifferente, se non ostile. Lo certificano i dati contenuti nell’ultima relazione del Viminale al Parlamento dello scorso maggio. I commissari trovano un atteggiamento «indifferente anche protratto nel tempo» nel 7,3% dei casi, addirittura ostruzionistico e indisponibile (9,1%), oppure di finta collaborazione (14,5%). In un comune su due (51%), i commissari devono districarsi tra chi collabora e chi invece prova a mettergli i bastoni tra le ruote. Atteggiamenti che per il 65,5 per cento dei casi rimangono inalterati anche dopo la gestione straordinaria.

L’indifferenza dei cittadini

Sempre il rapporto del Viminale segnala che più della maggioranza (54,5%) percepisce lo scioglimento con indifferenza, a volte con indignazione (32,7%), rassegnazione (25,5%), come una perdita di tempo (12,7%), come un complotto politico (11%), con stupore (11%) e perfino con paura (3%). Ha rilevato il presidente del Sinpref Antonio Giannelli nell’audizione alla Camera: «La Commissione straordinaria è come se entrasse in una stanza buia e si muovesse a tentoni in un ambiente spesso ostile e certamente poco collaborativo». E così spesso due anni non bastano, e se gli scioglimenti si ripetono la paralisi del Comune diventa infinita. Con perdita di fiducia nello Stato che finisce per alimentare proprio quelle metastasi che si vogliono eliminare.

Pochi casi al Nord

Un altro dato salta subito all’occhio, scorrendo trent’anni di scioglimenti. Su 349 casi, soli 13 hanno toccato comuni fuori dalle regioni meridionali con tradizionali radicamenti mafiosi, appena il 3,7%. Una cifra troppa bassa, anche tenendo conto del radicamento storico delle mafie nel Sud. La Calabria è la regione con il numero più alto numero: 123 enti sciolti, con Reggio Calabria che guida con 70 casi la poco prestigiosa classifica delle province, seguita da Campania (110), Sicilia (84) e Puglia (19).

Eppure le inchieste negli ultimi anni hanno purtroppo svelato come le cosche hanno trovato radici e nuove collusioni al Nord, dove peraltro riescono a intercettare più ingenti flussi di denaro. Una migrazione geografica a cui non fa riscontro un incremento dei consigli comunali sotto osservazione o sciolti.

La conoscenza degli atti

Da tempo si chiede anche maggiore trasparenza. Aspetto sottolineato dal coordinatore di Avviso Pubblico nella recente audizione alla Camera: «risulterebbe di fondamentale importanza la pubblicazione in forma integrale di tutti i documenti funzionali all’individuazione delle cause che hanno condotto allo scioglimento dell’ente». Attualmente vengono rese pubbliche solo le relazioni del ministero dell’Interno e del prefetto, ma non quella della commissione di accesso che è sicuramente più puntuale e dettagliata. Così come nessuna pubblicità è prevista se si decide di non procedere allo scioglimento (i decreti di archiviazione sono stati finora 52, di cui 5 nel 2020).

Una maggiore trasparenza permetterebbe di capire meglio cosa ha spinto lo Stato a una misura così drastica nei confronti di amministratori, che ovviamente ogni volta protestano innocenza e gridano allo scandalo. In alcune circostanze probabilmente non a torto. In 23 casi infatti i decreti di scioglimento sono stati annullati, ovvero il Tar o il Consiglio di Stato hanno accolto i ricorsi e reputato che non c’erano i presupposti per interrompere quell’esperienza di governo. Che tuttavia c’è stata, provocando comunque una ferita nella comunità.

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Il rischio di distorsioni

La Commissione siciliana antimafia, nella relazione dello scorso aprile sul «ciclo dei rifiuti», ha denunciato possibili forzature della legge. Cita espressamente tre scioglimenti (Siculiana, Scicli e Racalmuto) e manifesta «la preoccupazione che ci possa essere stato un uso disinvolto e strumentale delle norme» e che, «in taluni casi, lo scioglimento sia oggettivamente servito a rimuovere, assieme alle amministrazioni comunali, le posizioni contrarie che quelle amministrazioni avevano formalizzato sulla apertura o sull’ampliamento di piattaforme private per lo smaltimento dei rifiuti». Non c’è dubbio che la legge sullo scioglimento dei comuni è un’arma potente per fermare gli interessi dei clan su appalti e controllo del consenso. Una lama per recidere legami illegali che però andrebbe affilata, come chiede chi si trova a operare in questi contesti complicatissimi. dataroom@rcs.it

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