Il governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco: «Bene la risposta alla crisi, ora cambiare passo»
Questo è il fenomeno economico che mi preoccupa di più: un problema molto keynesiano, se vogliamo. La propensione al risparmio sale, il consumo aggregato scende, ma ciò a sua volta fa sì che ci sia meno attività produttiva, meno occupazione, meno reddito, cosa che finisce per ridurre il risparmio complessivo anche se, paradossalmente, tutto è partito dal tentativo che ciascuno stava facendo di far crescere il proprio. Contro questa spirale negativa, bisogna intervenire con la politica di bilancio e la politica monetaria. È essenziale continuare ad avere politiche accomodanti finché questa componente legata all’incertezza non scompare. Poi c’è un terzo fattore: non sappiamo come ne usciremo».
Che intende dire?
«Quale sarà
il “nuovo equilibrio”, ci sarà un new normal? Finché non si capisce
cosa sarà il nuovo mondo – magari con più digitale, con modifiche nelle
attitudini di consumo, un turismo diverso e più regolato – la struttura
della produzione e la natura degli investimenti non saranno definite e
potremmo vivere una transizione complicata. Questo è il quadro che più
mi preoccupa, perché oggi è difficile dare risposte».
La Banca centrale europea chiede alle
banche di iscrivere fra i crediti deteriorati le posizioni più
difficili. Non si rischia di imporre una stretta prematura al credito?
«Di
fronte a valutazioni di alta probabilità di insolvenza, bisogna che le
banche ne tengano conto: hanno capitale in eccesso da utilizzare. Le
banche hanno avuto un aumento consistente dei coefficienti patrimoniali
quest’anno, anche perché non hanno distribuito dividendi e così hanno
costituito un cuscinetto. Quel cuscinetto serve per utilizzarlo in una
fase del genere. Le inadempienze molto probabili e le sofferenze
conclamate non possono essere mantenute in bilancio senza sufficienti
rettifiche di valore; altrimenti ne deriverebbe un grave problema anche
in tempi non lunghi. Ci vuole equilibrio e l’autorità di vigilanza sa
bene che una crescita dei crediti deteriorati è inevitabile. Ma se non
mettiamo subito in bilancio ciò che manifestamente non può essere
recuperato, le banche accumuleranno perdite tali da richiedere
interventi di ricapitalizzazione rapidi e sostanziali, magari in
condizioni di mercato difficili. Peraltro ci sono situazioni diverse e
le banche più piccole possono avere maggiori difficoltà, anche per i
loro rapporti con molte piccole imprese oggi più vulnerabili. Serve
un’analisi onesta: se un’impresa non può essere rimessa in sesto,
bisogna pensare ad altri interventi che il governo può fare che
riguardano, ad esempio, sussidi per la disoccupazione e sostegno dei
redditi».
Governatore, sta tornando un rischio di deflazione in area euro e in Italia?
«L’Italia
è in linea con la media europea, non c’è differenza. La ragione ultima
della variazione negativa è legata ai prezzi dell’energia, che sono
crollati. Era del tutto previsto e non è straordinariamente rilevante.
Tuttavia anche al netto di questo le variazioni dei prezzi tendono a
essere molto basse, se non negative, e si è creata una distanza, da
colmare, dal nostro obiettivo di stabilità dei prezzi, con effetti che
possono essere pericolosi. La bassa inflazione può portare a mantenere
basse le aspettative di variazione dei prezzi, queste a loro volta
influenzano la crescita dei salari e, nuovamente, gli stessi prezzi. I
tassi d’interesse nominali sono fermi ed è difficile riuscire a farli
scendere ancora di più. A quel punto i tassi reali possono salire, con
effetti negativi sulla domanda e un impatto anche sul debito, che
salirebbe in termini reali. Il debito, sia pubblico che privato, in
Europa è già alto e crescerebbe ancora con la deflazione: è il classico
meccanismo debito- deflazione, che è prevalso per esempio durante la
Grande Depressione».
È uno scenario molto pericoloso, no?
«Per
questo la politica monetaria dev’essere espansiva e restarlo a lungo
nel tempo. Su questo vi è un consenso ampio, e la storia – anche recente
– ha dimostrato che con la politica monetaria riusciamo a intervenire
efficacemente e che la deflazione si può combattere».
Qualcuno teme la fiscal dominance, il
fatto che la banca centrale si trovi costretta a assecondare e sostenere
l’indebitamento crescente dei governi…
«C’è una giusta
preoccupazione che, se la politica monetaria si sostituisse alla
politica di bilancio usando la base monetaria per finanziarlo, al posto
delle tasse o del debito, si finirebbe per compromettere l’indipendenza
delle banche centrali con conseguenze alla lunga molto gravi. Ciò detto,
non credo che si debbano oggi prendere troppo sul serio questi rischi
perché, se in questo momento non agiamo in accordo con la politica di
bilancio per sostenere l’economia e riportare la domanda ai livelli
giusti per riguadagnare la stabilità dei prezzi, potremmo finire per
perdere l’indipendenza per la ragione opposta. Qualche politico potrebbe
dire che non stiamo facendo il nostro dovere. Il policy mix,
l’interazione fra politica monetaria e di bilancio, non è certo una cosa
dell’altro mondo».
La Federal Reserve cercherà di
massimizzare l’occupazione tollerando anche che l’inflazione salga per
un po’ sopra al suo obiettivo del 2%. Un buon modello?
«È una
proposta interessante, lo stiamo studiando e stiamo discutendo noi
stessi su come rivedere la nostra strategia di politica monetaria.
L’obiettivo della stabilità dei prezzi è nel Trattato europeo, è il
nostro principale mandato. Ma non è il solo perché è anche scritto che
dobbiamo contribuire alle politiche della Ue, volte a dare occupazione a
tutti e creare condizioni di sostenibilità sociale adeguata. In questo
contesto è ovvio che noi dobbiamo guardare alla domanda. Che sia o meno
nel nostro Statuto, è evidente che se la domanda è troppo bassa la
politica monetaria deve cercare di farla salire. Il problema è nella
percezione del pubblico. I nostri sondaggi indicano che la nostra
definizione di stabilità dei prezzi è vaga, difficile da comprendere.
Diciamo che vorremmo un tasso d’inflazione su livelli inferiori ma
prossimi al 2% nel medio periodo. Io credo invece che l’obiettivo debba
essere simmetrico».
Dunque 2%?
«Certo non
“inferiore ma prossimo” al 2%. Penso anche che dev’essere mantenuto a un
livello abbastanza lontano da zero. Uno per cento o 1,5% sono valori
troppo bassi perché ci vogliono margini di flessibilità sufficienti per
far fronte alle crisi e bisogna anche tenere conto di un’innovazione
tecnologica continua, rapida e molto forte che tende a ridurre i prezzi e
distorcere la stima statistica della loro crescita. Ma, soprattutto,
serve chiarezza di intenti. Non è un fatto positivo che le decisioni di
politica monetaria siano seguite da una serie di comunicati stampa di
alcune banche centrali nazionali e da dichiarazioni più o meno
episodiche di noi membri del Consiglio direttivo».
Deve parlare solo Christine Lagarde?
«No,
bisogna che ci sia più trasparenza. Bisogna che si sappia ciascuno di
noi cosa pensa e che questo avvenga nelle discussioni al Consiglio
direttivo. Non ci sarebbe niente di male se nelle minute delle riunioni a
ciascuno di noi venissero esplicitamente attribuite le proprie
riflessioni. Ci faremmo capire meglio anche dal pubblico, e si
scoprirebbe che vi sono molte meno differenze di opinione di quanto
spesso si crede».
Che ingredienti dovrebbe contenere il percorso di riduzione del debito pubblico?
«Il debito è di tutti noi e dobbiamo essere molto chiari: la capacità
di sostenerlo non è in dubbio, l’Italia ha sempre onorato il proprio
debito. Ma in questo ci sono dei costi: se l’onere del debito è troppo
alto, ciò limita la possibilità di usare le risorse per altri scopi
importanti. Inoltre i mercati possono anche dare risposte pericolose in
fasi di shock o di crisi politiche. Ci sono tre variabili che contano:
la crescita economica, gli interessi sulla carta pubblica e l’avanzo
primario (al netto degli interessi, ndr). Queste variabili sono
collegate, ma è la crescita quella fondamentale: senza, non riusciamo a
far scendere il rapporto fra debito e prodotto, che è la dimostrazione
più chiara della nostra capacità di rimborsare».
Cosa si sente di dire a un giovane che
deve decidere se emigrare all’estero o puntare sull’Italia costruire il
suo futuro? E a una donna?
«Credo servano i fatti, non le
parole. Dire a un giovane “stai tranquillo” – senza fatti che lo
sostengano – non è utile, è sbagliato. Ci sono ritardi in Italia tanto
sul fronte dell’occupazione quanto sull’istruzione. Giovani con
competenze elevate spesso lasciano l’Italia, perché la società italiana
non è riuscita a creare una domanda sufficiente di competenze elevate.
Invece è una domanda necessaria. Ora che avremo più investimenti in
innovazione, ciò richiederà competenze elevate; è così anche per una
pubblica amministrazione più capace. Ai giovani conviene studiare,
investire su se stessi, sul proprio capitale umano. Oltretutto le
proiezioni demografiche sui prossimi quindici anni indicano che in
Italia avremo tre milioni di persone in meno in età di lavoro. Ci sarà
un deficit di persone, nonostante una stima Eurostat di 200 mila
ingressi l’anno di stranieri. Anche per tutto questo occorre che ci sia
più partecipazione al lavoro, per raggiungere tassi di crescita
sufficiente, per sostenere un avanzo primario dell’1,5% del Pil, per
mantenere un tasso d’interesse basso e garantire un consolidamento
naturale e progressivo del debito. Se non riusciremo ad alzare di molto
la partecipazione al lavoro – in particolare dei giovani, delle donne,
delle persone nel Mezzogiorno – ci sarà una caduta del Pil».
Come giudica la conduzione del governo in questa fase?
«Ho interazioni frequenti con i ministri, con Roberto Gualtieri poi il confronto è continuo così come con il presidente del Consiglio. Il governo si è trovato a gestire una situazione drammatica e da cittadino credo che alla fine, nel confronto internazionale, non ne sia uscito male. Ha raccolto un’eredità molto difficile, perché siamo stati tutti responsabili in passato nel non essere capaci, come Paese, di cogliere al meglio le opportunità di un mondo più aperto. Siamo rimasti nel nostro piccolo mondo, condannandoci a una stagnazione prolungata. Ecco perché l’opportunità che ha questo governo è epocale e va colta».
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