Roma, la versione di Buzzi e il peccato Capitale di abituarsi al peggio
Processo Mondo di mezzo, “ecco perché non era Mafia Capitale ma solo associazioni a delinquere. A loro l’amministrazione si era consegnata”
di FEDERICA ANGELI e SIMONA CASALINI
A ben vedere, è la riproposizione del canovaccio con cui, nel 2014, l’allora avvocato Giosué Naso, allora legale di Carminati (prima che i rapporti tra i due si rompessero platealmente, con l’accusa mossa dal secondo al primo, di aver immaginato una strategia difensiva che lo avrebbe fatto “marcire in carcere”) definì Mafia capitale “un processetto”. E che oggi convince l’avvocato di Buzzi, Alessandro Diddi, a posare come “vincitore” di una vicenda processuale in cui il suo assistito, pur avendo visto cadere l’accusa di mafia, incassa sin qui una condanna definitiva per associazione a delinquere e corruzione e due condanne da 19 e 18 anni.
E’ uno spettacolo di fronte al quale si potrebbe fare spallucce. Da archiviare, dunque, con la stessa dose di cinismo e banalizzazione che lo ispira. Magari pensando che in fondo, come in ogni recita a soggetto, ognuno si attiene ad un copione (basterebbe, per dire, confrontare il “riduzionismo” su Mafia Capitale dell’avvocato Diddi con l’affilato approccio “inquisitorio” con cui, nella sua veste di procuratore aggiunto di giustizia vaticano, sta conducendo l’inchiesta sul cardinale Becciu e le malversazioni nella gestione della cassa della Segreteria di Stato Vaticana).
Ma forse non è una buona idea. E non per accanimento personale nei confronti di Salvatore Buzzi (che pagherà con la giustizia italiana il conto che un tribunale riterrà congruo), o perché Roma, con la sua condanna, abbia riacquistato la piena agibilità e trasparenza della sua vita pubblica. Ma per il singolare sillogismo con cui lo stesso Buzzi è arrivato a paragonare se stesso a Luca Palamara e la degenerazione correntizia del Csm alle sue riunioni con gli ex nar Massimo Carminati e Riccardo Brugia.
Nell’avventurosa equazione di Buzzi si rintraccia infatti quella stessa convinzione – “nella notte tutti i gatti sono grigi” – che è stata il presupposto della catastrofica stagione del populismo in Campidoglio. Sostenere a distanza di sei anni dal 2014, e alla vigilia di una nuova campagna elettorale, che “Mafia capitale” fu solo il sapiente prodotto di una montatura o, peggio, complotto mediatico-giudiziario per caricare la croce di tutti sulle spalle di un povero disgraziato, significa voler continuare nel racconto di questa città indicando il dito e dimenticandosi della luna. Evitando così di dare alle cose il loro nome. E ai singoli le loro responsabilità (quali che esse siano. Politiche o penali). Diciamo che il prezzo che Roma ha pagato consiglierebbe di non ripetere l’errore.
REP.IT
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