Furto di gioventù per il “nostro” bene
Per un ragazzino, di per sé, niente – nemmeno la Playstation – è più importante del calcio.
Non il calcio dei campioni che vedono in tv, ma quello della piccola squadra per cui giocano e si allenano. Il primo è poco più di un divertimento, al massimo un sogno. Il secondo, a quell’età, più della scuola, più degli amici, forse anche più della famiglia, è la loro vita. E come facciamo, adesso, a rubargliela un’altra volta? Come facciamo a spiegargli che, per la seconda volta, salta tutto? Che non si gioca più, si fermano allenamenti, niente partita la domenica… Per un ragazzino di tredici, quattordici, quindici anni, il calcio – meglio: lo sport; qualsiasi sport oggi vietato – è tutto. Usciti da scuola alle 13 non aspettano altro che andare ad allenarsi alle 18, anche al freddo, sotto l’acqua, anche se poi non saranno convocati per domenica, anche se saranno convocati ma non giocheranno… Negli occhi loro hanno il calcio. Nella testa, noi, il virus. Non è facile per un genitore negare al figlio, per la nostra salute, la sua passione. I ragazzi hanno indici di contagio bassi e mortalità nulli. Vietiamo loro di giocare soltanto perché non diventino un veicolo del virus nelle nostre case, in famiglia, tra gli adulti e gli anziani. Tutto giusto, sensato, logico. Tremendamente egoistico. Si nega la loro gioia per la nostra sicurezza. Non c’è nulla di più tragico, e triste, per un genitore. Chi ha un figlio che pratica uno sport di contatto a livello agonistico, lo sa bene.
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