Il senso di finitudine di un premier
Succede nella vita, soprattutto se non si è affetti da permanenti deliri di onnipotenza, gravi problemi dell’io, ebbrezza, perdita del principio di realtà, di avvertire un certo senso di “finitudine”. Accade, molto prosaicamente, quando leggi la curva dei contagi, capisci che già sei mezzo chiuso in casa e, a breve, tornerai a guardare albe e tramonti solo dalla finestra. Lo capisci, meglio ancora, quando leggi il numero dei morti, con quel greve senso di angoscia e impotenza che ti assale. Non serve Kant, con le sue letture heideggeriane sulla finitezza di tipo “ontico”, legata ai limiti umani rispetto alla conoscenza, o di tipo “trascendentale” nella Critica alla Ragion Pura.
E francamente, non serve neanche andare a teatro o ai concerti per avere questa malinconia esistenzialista. E allora, con mente pura, leggete qui e, mentre leggete, pensate a chi può averlo detto:
“Anche l’esperienza che abbiamo maturato in questi mesi di grande difficoltà ci conferma che la cultura contribuisce a rafforzare l’identità di un intero popolo, agisce come volano per la coesione sociale, creando le basi – al contempo – per un dialogo che attraversa regioni e confini nazionali, aiutando a cogliere, nella propria e nell’altrui leggenda, il comune destino di finitudine dell’essere umano”.
È il momento forse più alto della risposta del presidente del Consiglio Giuseppe Conte al maestro Riccardo Muti sul Corriere. Risposta verbosa, che sfoggia l’erudizione di chi ha indossato l’abito dell’Elevato e la puntigliosità avvocatesca di chi prepara un ricorso al Tar.
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