“La pazzia sta esplodendo, la gente è a pezzi”. Intervista ad Aurelio Picca

Per questo c’è chi si rivolta?

Le rivolte sono l’aspetto più appariscente, ma non il più tangibile di quel che sta avvenendo. In piazza, scendono in pochi. Ma c’è una rivolta che non scende in piazza, una rivolta silenziosa, che sta esplodendo nella testa delle persone. C’è chi è diventato ossessivo, chi ha amnesie, chi non riesce più a concentrarsi, chi è facilmente irritabile. Tra le conseguenze del virus non c’è solo il rischio di diventare più poveri: il virus rischia di farci diventare anche psicopatici.

Li capisce allora quelli che fan casino in piazza?

Non li giustifico, né invito nessuno a imitarli: ci mancherebbe. Dico, però, che l’impulso che provano in una parte di me lo provo anche io. Sono un tipo solitario, ma ora che la solitudine mi è imposta dallo stato ho un moto di ribellione naturale. È un impulso che non assecondo, ma nemmeno rimuovo: lo osservo e dentro di esso percepisco la sofferenza che spinge le persone a dire: “Ora basta, non ce la faccio più”.

Lei come l’affronta?

Lo tengo a bada con la ragione. A Velletri, prenoto da Benito al Bosco un tavolo da cinque e mangio da solo. Vado al mare quando non c’è un’anima. Giro di notte. Questo entra in conflitto con il nuovo Dpcm. Ma sono abituato alle cose difficili. Anzi, sono abituato solo alle cose difficili.

Che vuol dire?

Che mio padre è morto a ventotto anni, quando avevo 21 mesi: sono cresciuto con mio nonno, che era un patriarca, e mi ha educato a una sola cosa: il dovere.

Non proprio la scuola migliore per la fragilità.

Sbaglia. Io da bambino vedevo le persone morire in casa. C’è qualcosa che educa di più alla vulnerabilità? Oggi i morti si nascondono. È meglio non vederli. Tenerli lontani. È così che l’uomo si è infragilito, nascondendosi che è debole. Nascondendosi, cioè, la verità. 

Lei come fa a sostenerla?

Ho passato la giovinezza nei cimiteri. Conosco tutti i camposanti d’Italia. Al cimitero di San Michele a Venezia ci portavo pure le ragazze. Giocavamo ore con i ceri, passeggiavamo davanti alle tombe dei bambini. Trovo che siano dei posti incantevoli.

Ma perché le piacciono i cimiteri?

Non credo alla psicanalisi, l’idea di cercare le motivazioni profonde dei gesti. Sono troppo emotivo per mettere le cose così razionalmente. I cimiteri… io andavo con mia madre e la tata, che era la serva e l’amante in incognito di mio nonno, e giocavo tutto il tempo circondato da queste donne che mi abbracciavano. Ho ricordi stupendi nel cimitero. Si vede che dentro di me si sono conficcati come frammenti di una sensualità che ricerco in continuazione.

Ha già citato suo nonno due volte: perché?

Perché ho vissuto con lui fino ai quattro anni, ma finché non è morto ho sempre sentito sopra di me la forza del suo potere. Non il potere di un padre, che è il potere che dà la regola della vita quotidiana, ma il potere di una mitologia: mitizzato ogni suo racconto e questo lo faceva diventare ai miei occhi sempre più grande. Mi terrorizzava anche quando dovevo salutare per uscire di casa. Rimanevo immobile davanti alla porta fino a quando qualcuno non se ne accorgeva e mi diceva: “Aurelio, guarda che si fa tardi, vai!”.

Solitamente, i nonni sono più teneri dei padri.

Mio nonno, no: obbediva alla legge del nome, dalla quale discendeva una visione precisa della famiglia, e un disprezzo del mondo, quando non corrispondeva a ciò che doveva essere. Il giorno in cui sono nato, primo maschio della generazione di discendenti, mio nonno disse: “È nato il toro!”.

Perché il toro?

Perché il toro, nella cultura arcaica, è l’animale potente, quello che procrea, una bestia sacra. Infatti, quando avevo due-tre anni, mi faceva salire sul tavolo e mi ordinava di tirare fuori il pisello e pisciare nei piatti degli zii. “Ecco il toro” diceva. Mi guardava come l’erede simbolico. Quando diventai più grande – avevo ormai diciannove anni – e cominciai ad avere un rapporto diverso con lui, morì. Sentii un terremoto. Perché non era morto solo un uomo che mi aveva fatto da padre. Era franata una mitologia. Era crollato un Impero. Sentivo tremare tutto, dentro e fuori di me.

Eppure, era già abbastanza grande.

È che nella mia vita ho sempre dovuto ricostruire la figura paterna. Mia madre si è sposata in seconde nozze con un altro uomo. Era un comunista rigido, che ha cercato di darmi delle regole e raddrizzare la mia educazione da selvaggio. Ricordo che mi obbligava a mangiare il minestrone, che io detestavo. Piangevo e ingoiavo lacrime e minestrone. Morì quando avevo nove anni. E, alla fine, la mia legge l’ho dovuta trovare nella letteratura.

Che significa?

Che il mio sogno era diventare pittore, ma quando mio nonno morì ho sentito che dovevo fare qualcosa, altrimenti sarei crollato. Io leggevo sempre, ma in maniera disordinata. Da quel momento, la letteratura è diventata la mia regola, la mia disciplina. La scrittura mi ha dato finalmente la legge che non avevo mai avuto. Sono diventato il padre di me stesso e, attraverso la letteratura, ho costruito il mio nome. Ho scritto per rispettare una legge, non per fare carriera.

Ma come campa un poeta?

Mi sono laureato in letteratura moderna e contemporanea, ho un diploma da gemmologo e nella vita ho fatto di tutto: il cameriere, il barista, il muratore, il giocatore di biliardo, il pilota di auto veloci. Ho avuto momenti di grande lusso e altri di estrema povertà. Ho comprato le macchine più belle del mondo e sono caduto in disgrazia. Oggi ho il guardaroba più fornito dopo quello di Bryan Ferry e sono senza una lira in tasca.

Non mi dica che è un sottoproletario.

Io non ho classe sociale: un uomo che è cresciuto senza una vera famiglia non può avere classe sociale. In compenso, ho tre culture diverse: una repubblicana-rivoluzionaria- mazziniana (mio nonno), una cristiana levantina (mia madre) e una togliattiana (il mio patrigno).

Crede anche?

Come si fa a non credere al mistero? Siamo un granello di sabbia nello spazio infinito dell’universo. Quante cose possono succedere nell’infinito? Senz’altro può succedere anche Dio. All’imbocco della maturità, ho sentito Cristo arrivare dentro di me, come l’esempio estremo del coraggio. Credo che, per quanto possiamo negarlo, il dolore che ha testimoniato sia rimasto attaccato nel più profondo di noi stessi.

Ho trovato splendido il suo poemetto “L’Italia è morta, io sono l’Italia”.

È la mia dichiarazione d’amore all’Italia. Non saprei come altro definirlo questo sentimento enorme che provo. Conosco ogni regione, ogni provincia, ogni città di questo Paese. L’ho visitato con l’atlante in mano, fin da quando ero ragazzo, in una deriva psicogeografica. Amo anche i ciottoli delle strade italiane, i muri di pietra, i selciati, le fontane di paese. Amo tutto. Mi dica un posto… la Calabria… lei è calabrese, no? Ecco: amo anche la Calabria, che pure è tutta ’ncocciata.

Qualcuno ha detto che lei è fascista: è vero?

Conosco i nomi e i cognomi, ma non amo fare pettegolezzi. L’han fatto per ferirmi e ne ho sofferto molto. Ma non sono uno di quegli scrittori che tiene gli scheletri dei nonni fascisti negli armadi e poi si proclama ad alta voce comunista, di sinistra, antifascista, con la stessa forza con cui rimuove il proprio passato. Io non sono fascista: è chiaro? Non ho padri fascisti da nascondere nei sottoscala della memoria. Sono commosso dalla tragedia del fascismo, dal modo in cui il popolo italiano ha obbedito al capo e, obbedendo, è andato sbattere: è un sentimento estraneo a ogni adesione.

Ama anche il patriarcato?

Ho il mito del patriarcato, ma il patriarcato che ho conosciuto non c’entra niente con il patriarcato di cui parlano le nuove femministe, nate spesso negli anni settanta e ottanta. Credo che la dialettica tra l’uomo e la donna sia l’ultima possibilità di democrazia rimasta. Abolire questa differenza sarebbe errore. Ci darebbe in pasto definitivamente all’uguaglianza capitalistica: che ci rende tutti uguali di fronte al consumo, per poi dividerci meglio davanti alle merci.

Non tiri in mezzo il capitalismo. Noi siamo due maschi: hanno ragione o hanno torto le donne quando dicono che noi esercitiamo un potere che le esclude?

Non mi riconosco in questo racconto della realtà. Il mito del patriarcato in cui sono cresciuto è un mito della costruzione, nel quale ogni generazione riconosce a un soggetto della famiglia il compito di guidare e unire tutti gli altri. In questo racconto, la donna e l’uomo non sono solo due persone di genere sessuale diverso, sono anche i simboli della mascolinità e della femminilità, due poli che sono presenti in ogni uomo e in ogni donna. Io per esempio sono un uomo, ma dui terzi dei miei tratti sono femminili: nel dono, nella sensibilità, nel modo in cui parlo del mio corpo.

Se la invitano a un dibattito e ci sono solo uomini va o non va?

Credo che per ogni scrittore, se è un vero scrittore, dovrebbe parlare la sua letteratura. Quando si tirano in ballo questi schemi si entra in un altro ambito, che è quello della falsa politica. Io sono innamorato di Saint-Just e di de Maistre, di Luigi XVI e dei rivoluzionari che gli hanno tagliato la testa, sono convinto che la più grande invenzione dell’illuminismo non sia stata la ragione ma la ghigliottina: un oggetto perfetto. In quale categoria mi metterebbe?

Ha detto addio alla giovinezza?

Non vede quanto sono ancora splendido?

Non vuole rispondermi?

No, so che lei allude alla vecchiaia.

E allora?

E allora le dico che faccio parte di quella specie di uomini che, col passare degli anni, non è destinata a invecchiare.

Quale sarebbe l’alternativa?

Diventare, pian piano, antico.

Aurelio
Aurelio Picca

L’HUFFPOST

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