Stati Uniti: democrazia alla prova più difficile
L’altra considerazione riguarda il consenso di Trump. Il suo risultato elettorale testimonia di una forza non indifferente, nel Paese, della suggestione populista e antisistema del presidente uscente. Trump ha fornito identità, piaccia o no, a un partito repubblicano dilaniato, prima di lui, tra moderatismo e tea party. Tanto che contro Obama il Gop fu costretto a presentare un ticket stravagante composto da un moderato, Mc Cain, e da un’estremista come Sarah Palin.
Trump ha parlato e galvanizzato l’America profonda, e ciò che a noi, in Europa, appare assurdo — basta leggere i due libri di Bob Woodward per trasecolare — è, ormai, circondato da una sorta di immunità. E così dichiarazioni fiscali a dir poco manchevoli e approssimazione nella individuazione di continenti e Paesi sono, per molti elettori, meno importanti della propria condizione economica. Per molti persino più rilevante di quella sanitaria.
Trump ha parlato di economia. Lo ha fatto prendendo uno dei corni del dilemma di questo tempo bastardo: salute o lavoro. Le indagini demoscopiche dimostrano che solo il 5% dei suoi elettori ha votato pensando alla pandemia. La stragrande maggioranza ha votato seguendo due issues: l’economia e la sicurezza. Trump si è, fin dall’inizio della sua avventura politica, infilato nelle maglie di due temi, fortemente inerenti la condizione di vita dei più deboli, che il pensiero riformista ha lasciato cadere, non solo negli Usa. Così vinse nel 2016 così ha convinto 68 milioni di americani.
Ma se vincesse Biden, Donald Trump, che ha consolidato la sua capacità di rappresentare la metà degli americani, sarebbe però, non bisogna dimenticarlo, anche un presidente sconfitto dopo il primo mandato. E, in questo, non si potrebbe non leggere un giudizio. Nel dopoguerra è capitato, per presidenti eletti, solo a Jimmy Carter e a George Bush padre. Trump sarebbe in quella fila. Non in quella di Reagan, Clinton, Obama. E neanche in quella di George W. Bush, che, comunque, fu rieletto con grande consenso nel 2004.
Sarebbe uno sconfitto, Trump. E mentre un politico mette nel conto la sconfitta e progetta la rivincita, un imprenditore finanziario d’assalto come Trump non la contempla. Per lui è sempre un all-in. Tutti i documentari della sua vita dimostrano che mai, neanche di fronte a rovinose cadute finanziarie, Trump ha ammesso di aver sbagliato. Per questo resiste, accusa di brogli, è disposto a far saltare il banco della democrazia americana.
Infine Biden. Deriso, talvolta vilipeso negli spot avversari, il vecchio Joe ha comunque saputo tenere insieme la rivolta di tanti verso Trump con la tessitura del consenso dei moderati, a cominciare dai repubblicani delusi. Non ha fatto errori, né in campagna elettorale né nella scelta del ticket. Ha unito il partito democratico ed è apparso al tempo stesso moderato nei toni e fermo nel sostegno alle grandi questioni— l’ambiente e la multiculturalità — che sono parte essenziale delle domande dell’elettorato più progressista.
È un uomo anziano, è un politico navigato, è parte dell’establishment. Il contrario dunque dell’identikit suggerito dal mainstream. Eppure potrebbe aver vinto. E non per demerito esclusivo del suo improbabile avversario, ma per un suo merito peculiare. Biden infatti rassicura, in un tempo di caos. Biden sembra capace di tenere saldi alcuni principi che sono nella natura della democrazia americana. Biden ha un tratto umano inclusivo, il che conta.
Se sarà presidente si troverà di fronte a sfide inedite, per le quali la vecchia cassetta degli attrezzi del pensiero democratico non funziona più. Avrà un congresso per metà ostile e un partito da tenere in equilibrio. Sarà una corsa difficile. Ma ogni marcia, si sa, comincia con il primo passo. E quello di questi caotici giorni di novembre può essere davvero un passaggio storico. E non solo per l’America.
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