Covid e medici di base, ecco chi deve fare i tamponi rapidi e perché non funzionano le cure a casa
di Milena Gabanelli e Simona Ravizza
Cosa dovrebbe fare un paziente che sta male per sospetto Covid? Chiamare il suo dottore, che lo prende in carico, verifica la positività, poi raccoglie al telefono i sintomi, offre consigli, eventualmente lo invia in ospedale per una valutazione o ricovero urgente, altrimenti monitora la situazione e se necessario fa una visita a domicilio (o invia le Unità speciali di continuità assistenziale, le note Usca). Invece nelle ultime settimane un contagiato su tre, impaurito e abbandonato a casa, va ad intasare i Pronto Soccorso, dove dovrebbero arrivare solo i pazienti Covid che richiedono una valutazione clinica complessa. Inoltre, negli ospedali un malato su tre occupa posti letto anche se potrebbe essere curato a domicilio. Eppure, in Italia ci sono 44 mila medici di famiglia. Dove si inceppa il meccanismo?
I doveri del dottore
La legge 833 del 1978 all’art. 25 dice: «L’assistenza medico-generica è prestata dal personale dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale operante nelle unità sanitarie locali o nel Comune di residenza del cittadino». Tra le due alternative, la scelta è caduta sulla libera professione in convenzione (legge 502 del 1992, art. 8), vuol dire che il lavoro dei medici di famiglia è disciplinato da accordi collettivi triennali sottoscritti dalle loro rappresentanze sindacali e dalla Conferenza Stato-Regioni. Ogni prestazione aggiuntiva deve quindi passare da una contrattazione sindacale.
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