Covid, in “cattività” si perde la speranza

Obbligare una persona in un luogo, per quanto ragionevole dal punto di vista epidemiologico, comporta dei danni secondari di grande importanza. Lo sanno bene i medici e gli infermieri che lavorano nei reparti più a rischio: un sorriso, una speranza, un saluto per nome, fanno parte integrante di qualsiasi clinica moderna (l’hanno capito perfino molti manager che si sono affidati in questi anni a “mental coach”, spesso improvvisati, pur di migliorare la produzione).

Una componente depressiva si chiama “perdita delle speranze” e non c’è di meglio della “cattività” ad accentuarla. Possibile mai che nella pletora di immunologi, virologi, epidemiologi, non sia venuto in mente a nessuno che se non si cura l’anima dei pazienti di coronavirus non si otterranno mai i traguardi che si prefiggono (una signora che non può vedere suo figlio ma solo il respiratore cui è attaccata, morirà prima e peggio).

Fin tanto che una persona è considerata un ammasso di cellule e di tessuti interstiziali, la paura e l’angoscia continueranno ad aiutare il virus a fare il suo lavoro di scavo. La medicina che ho imparato dei vecchi clinici come mio padre o dai miei maestri come Franco Basaglia non trattava i pazienti come numeri, ma come persone, fino all’ultimo respiro. 

Temo questa medicina ipertecnologica che guarda più ai monitor che agli occhi di chi ha paura: le cure senza pietas non funzionano. Eppure un buon medico dovrebbe sapere che cortisone ed eparina non inducono gli stessi effetti, perché oltre alle flebo e agli aghi ci sono persone che aspettano un sorriso anche dietro una mascherina, vorrebbero sentire, tra un oppiaceo e l’altro, il proprio nome o sapere e sperare che c’è qualcuno, oltre le pareti asettiche, che li aspetta.

Chiudere una regione seguendo un algoritmo sancisce la vittoria della medicina e della economia più cocciutamente disumane e retrive. Lo aveva capito Bob Kennedy quando affermava che nessun Pil avrebbe mai potuto misurare il grado di benessere di un popolo, ma temo che troppi economisti e medici non abbiano letto quelle parole. Ogni terapia senza complicità frena i propri effetti.  

L’HUFFPOST

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