Coronavirus, viaggio negli ospedali Covid di Milano: «Caschi, ossigeno. Come al fronte»
Il vero fronte però è al primo piano, in quello che era il reparto di Medicina interna. Sabato 31 ottobre è stato convertito in area Covid: 40 letti diventati in poche ore saturi di pazienti. L’enorme porta che separa l’area dal resto dell’ospedale affaccia sull’atrio degli ascensori. Un citofono comunica con l’interno. Si entra in un corridoio profondo più di trenta metri. Sulla destra ci sono le camere. Quella che ospitava i letti numero 1 e 2 è diventata uno spogliatoio dove indossare camici, calzari, doppia mascherina (ffp2 e chirurgica), guanti e copricapo. Senza non si può procedere oltre. Gli ambienti sono spogli: un tavolo pieno di scatole di guanti di ogni misura, pile di camici e copriscarpe. Sulla parete di destra uno scaffale con le protezioni di scorta e le visiere per il viso. Perfino la sala medici sembra un piccolo accampamento di scatoloni e mobilia. Davanti ad ogni porta c’è un panno usato come «zerbino». È il solo oggetto ad avere qualcosa di familiare, come quando da bambini la nonna lo lasciava dopo aver pulito il pavimento. Non esiste una barriera ulteriore. Non c’è un segnale che comunichi che oltre quel punto si sta entrando in una delle aree più a rischio dell’ospedale. Subito ci sono i primi letti. Due uomini si intravedono avvolti da tubicini che portano l’ossigeno e monitor che rimandano i parametri vitali. Le luci sono quasi spente, il sole che entra dal finestrone sul fondo della stanza è senza forza, anche se è soltanto pomeriggio. Uno dei malati ha il viso avvolto da un casco Cpap. Tutti abbiamo imparato a conoscerlo, tutti nei siamo diventati esperti tra marzo e aprile.
È un sacco di plastica che si indossa sulla testa, due bretelle lo agganciano sotto le ascelle altrimenti decollerebbe come un palloncino dal quale si lascia uscire tutta l’aria. L’ossigeno viene spinto dentro con una forza che dà lo stesso effetto di quando in macchina si mette la testa fuori dal finestrino. Ma è come se si viaggiasse a 120 all’ora. Il rumore è infernale, come il tubo di un compressore che spara contro ai timpani. C’è chi lo indossa per quattro ore al giorno, chi dieci, chi non se ne stacca mai. Il casco Cpap spinge l’aria nei polmoni costringendo gli alveoli fatti collassare del virus e dalla polmonite a riaprirsi. Toglie il sonno, fa esplodere la testa. Ma è ossigeno per chi sta soffocando di fame d’aria. Ci sono pazienti sedati, immobili nel letto e attaccati ai respiratori. Altri hanno mascherine d’ossigeno tenute schiacciate sul viso così a lungo e così forte da provocare piaghe e lesioni sul naso e sulle guance. Non sono tutti vecchi. Non lo sono per niente. L’ex medicina interna è diventata un reparto Covid di «alta intensità». Non è una terapia intensiva, non si viene intubati, almeno finché le condizioni non peggiorano, ma nessuno di questi quaranta pazienti può restare se non per pochi secondi senza ossigeno.
Questi sono i «ricoverati della seconda ondata», non sono i casi estremi ma la quotidianità con cui medici e infermieri fanno i conti a Milano dalla fine di settembre. Chi si ammala di Covid e ha bisogno di un ricovero in ospedale oggi è così. Non immaginate una stanza singola con la tv accesa e gli infermieri che portano il té. Chi viene trattenuto in ospedale ha bisogno di cure salvavita. E non si muore solo in terapia intensiva. Ma si muore qui, in queste stanze da due o quattro letti dove medici e infermieri devono stare quasi ogni secondo vicini al paziente per regolare terapie e flussi d’ossigeno, per evitare che un rigurgito possa soffocare. «Non eravamo eroi a marzo, ma non siamo impostori adesso», si sfoga Donatella Bambacini, coordinatore infermieristico di Malattie infettive mentre tra le mani stringe una lettera di quattro fogli scritti a mano appena arrivata da una coppia di settantenni curati nella stessa stanza e dimessi da poco dopo settimane in ospedale: «In primavera abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo, turni massacranti e adrenalina. Oggi sappiamo di avere davanti ancora almeno sei, sette mesi in questa situazione. Conosciamo le conseguenze del virus. Per questo il morale non è alto. I malati sono nostri figli. Siamo noi a tenere la loro mano negli ultimi attimi di vita».
Nei reparti Covid c’è la frenesia del fronte. Gli infermieri hanno i nomi scritti sui camici, sagome quasi identiche coperte da tute e visiere. Uno trascina una cassa di bombole d’ossigeno, l’altro entra in una stanza con apparecchiature di monitoraggio. A metà del corridoio, quasi come in una torre di controllo c’è una fila di schermi che rimanda i parametri vitali di ciascun paziente. Chi ha creato questi spazi lo ha fatto grazie all’esperienza della scorsa primavera, ma ogni cosa ha la provvisorietà dell’emergenza, tutto è stipato in scatole e armadi che sembrano munizioni d’artiglieria. Ci sono i tablet usati dagli infermieri per far parlare i pazienti con i familiari. Perché qui non ci sono visite, si entra ma si perde ogni contatto con l’esterno. In una stanza da quattro un uomo sulla cinquantina stringe il cellulare con la mano destra, lo fa ondeggiare davanti al casco Cpap che ne distorce le immagini. È impossibile anche leggere un messaggio. Ma è un segno di vita mentre intorno i movimenti sono nulli, i corpi immobili anche se vivi.
La mortalità della seconda ondata è leggermente diminuita, perché i pazienti entrano in terapia già ai primi sintomi, mentre a marzo s’arrivava al pronto soccorso ormai intubati. Nei primi sette giorni ci sono i farmaci antivirali come il Remdesivir, poi si passa al cortisone e all’ossigeno, ai farmaci sperimentali. Eparina per tutti i ricoverati. Si lavora su protocolli studiati in tutto il mondo. I pazienti sono divisi in base al bisogno di litri d’ossigeno: gialli, verdi arancioni, rossi. L’ultimo stadio è finire intubati. «Non è per tutti, c’è chi è in condizioni così critiche e debilitate da non permetterlo», spiega il direttore di Malattie infettive, Massimo Puoti. A marzo i posti di terapia intensiva erano 126, oggi sono la metà e si sfrutta anche l’ospedale in Fiera e quelli del resto della Lombardia, come a Sondalo. A che punto siamo? «Siamo a novembre e dobbiamo arrivare a giugno». La sfida, qui come altrove, è riuscire a tenere in vita anche gli altri reparti dell’ospedale. Ma il personale non è infinito. E le forze neppure. «Questa polmonite da Covid ha avuto un 16-17% di mortalità fuori dalle terapie intensive, il doppio in quei reparti. Sono percentuali poco più alte di quelle delle “normali” polmoniti molto gravi da richiedere ricovero ospedaliero. L’eccezionalità è data dal numero dei casi, oltre trecento tutte insieme», racconta Paolo Tarsia, direttore di Pneumologia. Lui a marzo era stato tra i medici in rinforzo all’ospedale di Lodi: «Oggi ci sono pazienti che apparentemente stanno bene ma hanno Tac polmonari molto compromesse. E di solito in poche ore la situazione precipita».
Il Policlinico di San Donato è molto più piccolo del Niguarda, ma la situazione è identica. Come è drammaticamente uguale in tutti gli ospedali della provincia di Milano e della Brianza. Alle undici di mattina è un viavai di persone tra code per i tamponi, visite ambulatoriali e pronto soccorso. Ogni cinque metri, nei corridoi, c’è un adesivo verde: «Area Covid free». Anche qui, come ovunque, la guerra si combatte in settori che per forza di cose devono restare separati dal resto dei reparti e totalmente inaccessibili. Al terzo piano dove c’era uno dei reparti di chirurgia oggi sono solo pazienti Covid. In totale 150 pazienti su 400 posti letto dell’ospedale. A marzo l’intera struttura venne riservata ai Covid, anche qui come spiega il direttore sanitario Maria Teresa Cuppone, il miracolo sarà quello di mantenere aperto l’hub per le malattie cardiovascolari. Gli interventi «programmabili» sono invece già stati cancellati. Un cartello sull’identica porta tagliafuoco indica il «Biohazard», il rischio biologico. Si entra solo con camice monouso, calzari, copricapo, doppio paio di guanti, doppia mascherina, tuta e visiera. Gli sgabuzzini sono diventati spogliatoi, le anticamere dei reparti zone «pulite» o «sporche». Il gergo d’ospedale non necessita di spiegazioni. «Questo è uno dei reparti con l’età media più alta, oltre i settant’anni. Ma ci sono ricoverati anche più giovani», spiega la dottoressa Giulia Gobbo. «Però questa è la situazione di tutte le aree Covid: 60% uomini, effetti molto gravi sopra i settant’anni, ma anche la fascia di uomini tra i 50 e i 60 è particolarmente a rischio». Rispetto a marzo è l’età dei contagiati ad essere cambiata: «Tantissimi positivi tra i giovani, sono loro adesso a far correre il virus. E se crescono le percentuali di positivi, crescono anche i malati gravi e purtroppo le vittime. I letti restano occupati mediamente per dieci o quindici giorni. «Il nostro timore più grande è di non riuscire a stare dietro all’evoluzione dell’epidemia».
Nell’ex reparto di chirurgia ci sono solo camere doppie. È diventata una terapia sub intensiva, come tutte le aree Covid. Franco ha 81 anni, non è stato possibile fargli indossare a lungo il casco Cpap, si prova ad ovviare con una mascherina che spara ossigeno puro ad altissima pressione. Sul tavolo del carrellino ha un orologio con il cinturino in metallo, il cellulare, due bottiglie d’acqua e il carica batterie. Non può staccarsi dall’ossigeno e quindi non può mangiare, si ovvia con una enorme flebo. Parla e si muove normalmente. «Fra tre ore avremo un secondo consulto con l’anestesista. Stamattina eravamo pronti ad intubarlo, racconta la pneumologa Chiara Baldessarri. Lei si avvicina, lo accarezza, chiede se sta meglio. «Il Covid è così, da fuori sembra tutto normale e dentro la situazione polmonare è totalmente compromessa». In un’altra stanza c’è Alice, 61 anni. Ha i capelli legati in una coda, una maglia nera al posto del pigiama. La testa nel casco Cpap. «Da dieci giorni. Abbiamo temuto di doverla intubare. È una paziente forte, abbiamo provato in tutti i modi ad evitarlo». Per la prima volta stamattina le hanno tolto il casco per qualche minuto. Come si sta? «Da Dio. Ce la facciamo. Dai che torno a casa…». Gli occhi delle due dottoresse si fanno lucidi: «Non tutti i pazienti hanno un decorso positivo, purtroppo si muore anche in reparto. Il Covid non si cura nelle terapie intensive, quello è un passaggio quasi disperato. E la mortalità è alta. Ma tutti i nostri sforzi potrebbero essere inutili. Oggi l’emergenza è a Milano, ma non si vince solo con le cure. Si vince fuori dagli ospedali. Con i comportamenti, accettando le limitazioni. Ma la realtà è questa. È avvilente vedere che fuori di qui non c’è alcuna percezione».
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