Separati dalla realtà

Attorno alle 17,00 il cronista annota sul taccuino l’intervento di Alessandro Di Battista, scamiciato, vitale, sempre poco ingessato. Ti aspetti un po’ di fuoco. E invece la frase più forte è sulla richiesta di un “comitato di garanzia” per le nomine di governo che non comprenda membri di governo, più le condizioni per il suo ritorno in campo. Alle 17,05 (gli interventi non durano più di cinque minuti), il membro del governo per eccellenza, Luigi Di Maio, che prima era già stato in televisione – dettaglio che dice tutto sul peso politico che attribuiva alla riunione del suo partito – dicevamo, Luigi Di Maio, ancora senza cravatta, promette, un evergreen, che il Movimento si “farà sentire di più nel governo” e vola piuttosto alto, con una certa vaghezza sul tema delle alleanze. Sono i due interventi clou, preceduti da amene chiacchiere su tutto, fuorché sulla realtà, compreso un comizietto sul randagismo. Alla stessa ora, il triste bollettino delle cinque ricorda che il numero dei morti è pressoché stazionario. Punto.

Regole, mandati, polemiche sulle scalette degli interventi e sui votanti che l’hanno votate tenuti nascosti, direttori, giochi correntizi: è questa la fotografia del primo partito di governo, nel pieno di una pandemia che sta stravolgendo il mondo e, nel mondo, l’Italia stretta in una morsa del diavolo tra ragioni della salute e ragioni del Pil, in questo autunno senza certezze, nemmeno sui dati, in cui l’unica soluzione è un lockdown che viene negato proprio mentre si chiude inesorabilmente mezza Italia, in una situazione di confusione istituzionale senza precedenti.

Gli Stati generali dei Cinque stelle sono questo: un rito autoreferenziale che congresso non è, perché da che mondo e mondo i congressi sono comunque un luogo partecipato e democratico, insomma una stanca presa d’atto finale di un qualcosa che si è già consumato, con l’appeal di un convegno minore. Senza neanche un po’ di orgoglio identitario che, normalmente, quando uno è in crisi funziona sempre. Nemmeno gli insulti di De Luca, storico simbolo del volto più deteriore del Pd è riuscito a distogliere l’attenzione dall’iniziatico dibattito sul doppio mandato.

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