I veti sul Recovery / La vera sfida di conciliare democrazia e mercato
Nella sua intervista Macron ha parlato agli europei, invitandoli a
essere più coraggiosi e responsabili anche sui temi della sicurezza
comune. Ma ha parlato anche all’America e al suo presidente eletto, Joe Biden.
Ha parlato dei valori comuni dell’Occidente democratico e liberale e
della necessaria riforma del capitalismo e dell’economia globale.
Testimonia dell’intelligenza dell’uomo, che da uno dei templi finanziari
di quell’economia globale proviene, ma che capisce che i tempi nuovi e
drammatici che tutti stiamo vivendo richiedono idee e politiche nuove e
coraggiose. Riformare il capitalismo globale è fondamentale innanzitutto
per i cittadini di Europa e Stati Uniti, che più sono stati colpiti in
questi decenni dalle conseguenze (impreviste o sottovalutate) delle
regole che hanno reso sempre più complicata la convivenza delle ragioni
della democrazia e del capitalismo. La rinuncia a un governo efficace di
iperglobalizzazione e rivoluzione tecnologica ha prodotto il
progressivo e sempre più rapido impoverimento dei ceti medi e popolari
dell’Occidente, che la pandemia rischia di far precipitare
ulteriormente. Solo le democrazie hanno questo problema, il trilemma
insolubile di Rodrik (globalizzazione, democrazia, sovranità), e solo da
loro, dalle due sponde dell’Atlantico, può partire lo sforzo comune per
quella gigantesca operazione di riforma che è necessaria. Non significa
il ritorno del protezionismo aggressivo e inconcludente di Donald Trump
o del sovranismo autoritario di Orban e Kaczynski. Si tratta invece di
riportare la vigilanza e la leadership sull’economia globale ai governi,
che possono riuscirci in maniera cooperativa, attraverso le istituzioni
internazionali e nel nome dei principi democratici, oppure fallire in
modo conflittuale, affondando le istituzioni e cercando ognuno di
scaricare il fardello sulle spalle altrui.
L’alternativa è un rilancio del globalismo tecnologico alla cinese: fatto di suadenti inviti a una nuova era di prosperità comune, dove ognuno, nel nome della non interferenza reciproca e delle rispettive “tradizioni nazionali” possa continuare a espellere gli esponenti politici non graditi dai Parlamenti (come a Hong Kong) e a commerciare con gli altri, sfruttando la propria e l’altrui manodopera (per esempio in Africa) come meglio crede. Nessuno farà domande scomode, nessuno disturberà il manovratore. Paradossale che la Cina sia oggi l’alfiere del libero mercato globale? Mica tanto. La Regional Comprehensive Economic Partnership, lanciata da Pechino nelle scorse ore, ci ricorda semplicemente chi sta raccogliendo i frutti delle cattive regole che l’Occidente ha concepito in questi decenni: quando si illudeva di essere più forte politicamente e militarmente e di potersi dividere il lavoro con la Cina come più gli convenisse, sulla base di una superiorità tecnologica inscalfibile. Alla Cina, la “nostra” globalizzazione sta bene così, l’importante è solo che lei ne sia al comando. Ma a noi? Noi non abbiamo solo un problema di ruolo (leader o gregari), ma uno diverso e ben più cruciale per il nostro futuro: la riconciliazione nel XXI secolo di democrazia e mercato, alla quale solo una rinnovata partnership transatlantica può offrire una chance.
IL MESSAGGERO
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