Silvia Avallone: «La scuola diventi la casa di chi studia, senza i giovani non c’è speranza»
Dopo quell’ultimo incontro suGoogle Meet, ho afferrato il telefono, ho aperto la chat dei miei amici più cari — gli stessi del liceo, non a caso, molti dei quali sono oggi insegnanti — e mi sono lasciata andare a uno sfogo: «Bisogna fare qualcosa per la scuola, non è possibile che sia sempre l’ultima voce in capitolo, l’ultimo problema. Prima lo sci, lo shopping, il cenone. Capisco l’enormità del momento, capisco tutto, però le aule chiuse sono un’ingiustizia».
Ha risposto una mia amica, medico, che lavora in ospedale: «Silvia, qui la situazione è davvero difficile» mi ha freddato.
Uno dei risvolti più complicati di questa pandemia è il punto di osservazione. Se la guardi dal numero dei morti — più di 60mila in Italia — resti paralizzato. Se ti soffermi sulle persone intubate, che a volte non possono essere salvate, sperimenti quel senso di impotenza colossale che in questo 2020 abbiamo imparato così bene. Se poi ti sposti di lato, cominci a mettere a fuoco la disperazione di chi ha perso il lavoro, la rovina economica che incombe e inizia a balenare a occhio nudo nelle nostre città, nei cartelli «vendesi», «affittasi», «cedesi attività». Allarghi ancora la prospettiva, e percepisci l’aumento della violenza nelle case, dietro le finestre e le porte. Le senti più spesso le urla, le coppie che litigano. Le leggi di continuo, le notizie che raccontano di donne uccise dai compagni. È un crescendo vertiginoso, terrificante, al punto che stenti a credere che sia vero, che stia capitando a noi, a tutti noi: la nostra vita è stravolta, non si sa fino a quando. Ma è il dramma degli adulti, questo. E se ne parla perché sono gli adulti ad avere voce.
Eppure c’è un altro dramma, che secondo me non è collaterale né secondario, e che anzi mette a repentaglio la direzione stessa della nostra società, la possibilità di un futuro diverso dal presente che stiamo vivendo: il dramma dei bambini e degli adolescenti.
Non possiamo chiedere loro di tirar fuori strumenti che non hanno per fronteggiare questa pandemia, perché siamo noi a doverglieli dare.
Gli insegnanti si sono fatti in quattro per mettersi in pari con la tecnologia e far passare istruzione e umanità attraverso il muro dello schermo, ma purtroppo non basta. Dovremmo impegnarci notte e giorno pur di permettere agli studenti di imparare in presenza, perché è così che si impara, invece la scuola è il primo luogo che chiude, sempre e sistematicamente. Perché? Perché con tanta facilità? Anche se gli esperti rilevano pochi contagi nelle aule, anche se le criticità maggiori si riscontrano fuori: nei trasporti, nella movida. Anche se siamo l’unico Paese in Europa a tenere chiuse le superiori, e in certe regioni lo abbiamo fatto persino per le medie, le elementari, le materne. Non producono ricchezza, i bambini, non votano, non hanno alcun peso politico. Eppure sono la miniera più inestimabile: coloro che ci continueranno, a cui trasmettiamo sapere affinché portino avanti il mondo dopo di noi e lo cambino in meglio. Senza questo passaggio di testimone, senza questa prospettiva, cosa ha senso?
L’unico pensiero che riesce a strapparmi un sorriso è che le ragazze e i ragazzi italiani adesso, per andare a scuola, darebbero qualsiasi cosa. Farebbero lezione sotto la neve, pur di tornare. Qualcuno di loro ha già portato sedia e quaderno in strada, come abbiamo visto accadere in certi Paesi del Sud del mondo in occasione di proteste contro il diritto dell’istruzione negato. Se glielo avessero detto nel 2019, non ci avrebbero mai creduto.
Allora desidero immaginare una ripartenza da qui: se gli adulti non vedono nella scuola la priorità che è, i giovani adesso lo capiscono. Lo sentono, cos’è una crescita senza scuola: un abbandono. Ho usato una parola forte e ne sono consapevole, ma alla loro età, al loro posto, io mi sentirei così: lasciata andare, privata di un bene essenziale come una risata insieme tra i banchi. Che poi, quella risata, non è altro che un modo scanzonato per ribadire il diritto a conoscere, a fiorire nel mondo anziché isolati in una famiglia. Dove forse accadono violenze, dove forse non c’è connessione a Internet, dove forse non c’è mai stato un libro, un dvd, un giornale. Io credo che questi ragazzi sarebbero disposti ad andarci a piedi, a scuola, come hanno fatto un tempo i loro nonni e bisnonni, per chilometri. E credo che se potessero tornare in classe, finalmente si sentirebbero quello che sono: importanti. Protagonisti della lotta alla pandemia, fulcro della nostra società, invece che frammentati e alla deriva.
A volte li sento di là da un muro, i figli dei vicini di casa, che ascoltano musica tutto il giorno. A volte li vedo per strada, sciolti come cavalli selvaggi, senza più meta. Genitori mi raccontano di ragazzine che non vogliono più uscire nemmeno per una passeggiata, di ragazzi che non si lamentano mai, che studiano e basta, che fanno finta che questa quotidianità sia normale, ma poi hanno il sospetto che la prof abbia notato un lembo dei pantaloni del pigiama durante la dad, e allora entrano in crisi. Allora crollano.
All’inizio del primo lockdown avevo chiesto agli adolescenti in una lettera aperta di restare a casa, di usare la creatività e la cultura per ingannare il vuoto, di disubbidire alla vita di prima che li voleva tutti esteriorità e apparenza, di tirar fuori l’interiorità, invece, di sondarla, e di telefonare spesso ai nonni, di proteggerli. Adesso continuo a suggerire loro le stesse cose, ma chiedo a noi adulti di fare del nostro meglio per loro. Se ci dimentichiamo degli adolescenti e dei bambini, ci stiamo dimenticando il fine, la parte più importante di noi: il desiderio che la vita continui.
Ce l’ho sempre in mente, il monito della mia amica medico, la sua testimonianza diretta dalla corsia. Questo presente è un pantano, è vero, e ci tira giù tutti. Però, il discrimine credo sia questo: che se le scuole sono chiuse, il presente ci tiene prigionieri. Se le scuole sono aperte, invece, torniamo ad avere qualcosa in cui credere: il futuro, la speranza.
CORRIERE.IT
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